Giorno della Memoria: Primo Levi, montagne e libertà

Come scrisse Levi in un racconto di montagna che ha pochi eguali, lassù si poteva ancora godere del privilegio di essere «padroni del proprio destino»

Primo Levi al Colle della Tournette © Foto di Alberto Papuzzi

Vi fu un tempo in cui i tentacoli della politica si allungarono con infida decisione e con finalità ideologiche sulle montagne e soprattutto su chi, tra quelle montagne, amava arrampicarsi. Stiamo parlando del Ventennio fascista. Il fascismo tentò, a volte con successo, di far suoi i rilievi e il movimento alpinistico per rinforzare ulteriormente la macchina della propaganda. Chi meglio dei grandi scalatori poteva infatti riflettere le virtù esaltate dal regime come lo spirito di sacrificio, un fisico aitante e un temperamento audace? Percepiti così, gli alpinisti andavano premiati; gli alpinisti dovevano diventare emblema del fascista perfetto; di quello che, incurante del pericolo, trasformava la retorica in realtà.

Ma il desiderio di inglobare il movimento alpinistico tra le rigide e fitte maglie fasciste non si limitò al tentativo di sedurre, attraverso onorificenze e riconoscimenti, gli scalatori italiani attivi tra le due guerre.  Il governo puntò infatti più in alto, dritto dritto al più importante sodalizio nazionale di appassionati di montagna: il Cai.

Come evidenziato dal rapporto L’epurazione dei soci ebrei della Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano a cura di Lorenzo Grassi, il Cai, accorpato dal 1927 all’interno del CONI – che da Statuto prevedeva un «vincolo di piena sudditanza ai voleri del potere politico» -, nei piani del governo non aveva soltanto una funzione propagandistica: doveva infatti preparare gli italiani alla guerra in montagna, educandoli agli imprevisti e alle peculiarità delle alte quote. Nel 1938, nel tentativo di raffinare la lingua italiana dalle interferenze straniere, il Club alpino italiano venne ribattezzato Centro Alpinistico Italiano e a fine anno il presidente generale Angelo Manaresi inviò alle Sezioni una circolare riservatissima dove venivano prefissati i criteri per l’epurazione “dei soci di razza non ariana”.

Le conseguenze delle leggi razziali non tardarono a farsi sentire, quindi, anche sul sodalizio. In seguito alla circolare, scattò un’importante e scrupolosa esclusione dei soci ebrei dal Centro. Le leggi razziali, inoltre, non vennero applicate solo ai tesserati in vita, ma anche a quelli che erano morti da un pezzo. Nel 1939, infatti, la presidenza generale impose alle Sezioni locali proprietarie di rifugi dedicati ad alpinisti ebrei, di provvedere a cambiarne il nome. Emblematica, in tal senso, la storia del rifugio Levi, in Val di Susa. Il rifugio, che con lo scrittore torinese e la sua famiglia non ha niente a che vedere, nel 1929 fu intitolato a una giovane alpinista ebrea, Mariannina Levi, travolta un anno prima da una valanga presso il Colle della Rho, nella conca di Bardonecchia. Nel 1939, costretto a cambiare nome, il rifugio fu dedicato alla memoria di un’altra alpinista, Magda Molinari. Nel dopoguerra, per non far torto a nessuno, venne ribattezzato Levi-Molinari e tutt’oggi si chiama così.

Primo Levi sul Monte Disgrazia © Archivio Eredi Primo Levi

Negli stessi anni vi era però un altro modo di intendere le montagne, meno appariscente e senza dubbio più introspettivo. L’atto di salire in montagna non si può ridurre a un semplice esercizio fisico, e neppure al desiderio di raggiungere una meta tangibile (una vetta, un bosco, un rifugio, …). Spesso, infatti, si sale alla ricerca di sensazioni immateriali; spinti dalla necessità di respirare determinate emozioni, di lasciarsi trasportare da stati d’animo inconsueti e, a volte, addirittura inediti.  Non è quindi un caso che per molti la montagna rappresenti un baluardo di libertà, concetto ampio e complesso che, tuttavia, emerge abitualmente dalla narrazione delle esperienze alpine.

Quando mi capita di incontrare questo connubio (montagne-libertà) penso a Primo Levi. Il suo amore per la montagna e per l’alpinismo emerge timidamente dalla sua biografia: altri e più drammatici episodi l’hanno infatti segnata in maniera indelebile. Ma questa era una passione sincera e in un certo senso salvifica. Negli anni dell’università Levi saliva in montagna principalmente con due amici, nonché compagni di studi, Sandro Delmastro e Alberto Salmoni. La loro attività alpinistica si intensificò in modo particolare dopo il 14 luglio del 1938, anno in cui fu pubblicato il tristemente celebre Manifesto della razza. Levi, com’è a tutti noto, aveva origini ebraiche. Anche Salmoni era ebreo, mentre Delmastro aveva ereditato dalla famiglia una cultura antifascista.

I tre salivano in montagna per passione, ma anche per allontanarsi da una società in cui era per loro impossibile specchiarsi. Andavano ad arrampicare d’estate o con gli sci d’inverno per prendere le distanze da un’atmosfera pregna di intolleranza; da un mondo in cui non si sentivano accettati. Lassù, tra le vette, tornavano a respirare e, come scrisse più avanti Levi, avevano ancora il privilegio di essere «padroni del proprio destino». Tuttavia, non si inoltravano tra i rilievi solo per fuggire temporaneamente dall’opprimente realtà di tutti i giorni, ma anche per guardarla dall’alto, con occhio meno coinvolto e di conseguenza più lucido e nitido. Ecco, questa è forse la maggiore libertà che ci possono offrire le montagne: acquisire una prospettiva aerea capace di guidarci tra gli impervi sentieri della vita con maggior sensibilità e consapevolezza.

Per il Club alpino italiano, l’interferenza fascista è e rimarrà una macchia nera e indelebile. Ed è forse giusto che rimanga così, impossibile da cancellare, perché riconoscere i propri errori è un iniziale, importantissimo, passo verso la costruzione di un universo culturale rinnovato, in cui non vi è spazio per il fanatismo e l’intolleranza. Per effetto di contrasto, risalta in modo ancor più positivo il recente desiderio del Club alpino italiano di non nascondere sotto il tappeto questa infelice pagina della sua storia, recuperando e divulgando quanto accaduto.

La serata per non dimenticare

Oggi alle 21.00, presso la sede della Sezione del Cai di Milano (via Duccio di Boninsegna, 23), si terrà una serata intitolata “Le Leggi razziali e il Cai Milano”.  Introdurranno la serata il presidente sezionale Roberto Monguzzi e il past president Carlo Lucioni.
I relatori saranno Stefano Morosini (Università degli studi di Bergamo – Cai Bg), Fabrizio Russo (Coordinatore Consiglio centrale Cai), Luisa Ruberl (docente, socia Cai Milano) e Rony Hamaui (vicepresidente Centro di documentazione ebraica contemporanea).