In montagna per realizzare sé stessi

Federica Mingolla ha abbandonato l’arrampicata sportiva per la roccia e la montagna vera. Aspirante Guida alpina, intende trasmettere la passione per l’aria aperta ai giovani climber
Dalla palestra alla montagna per coltivare una passione accantonata, per arrampicare e scalare senza la pressione del risultato sportivo, riuscendo così a esprimere tutte le proprie potenzialità. E poi per cercare di trasmettere ai giovani climber il fascino della roccia, aiutandoli a trovare la propria dimensione e, in qualche caso, a realizzare i propri sogni. Queste poche parole ci sembrano adatte per presentare Federica Mingolla, 26 anni, torinese, protagonista di un percorso particolare, non comune. Dopo aver praticato diversi sport, Federica si è avvicinata all’arrampicata sportiva a 14 anni, ottenendo ottimi piazzamenti nelle competizioni. Ha continuato con le gare fino al 2014, quando si è innamorata della montagna vera, dell’arrampicata in falesia e dell’alpinismo. Ha salito pareti difficili dove, oltre alle capacità tecniche, occorre una buona conoscenza dell’ambiente. «Sono entrata nelle cronache verticali per essere stata la prima donna italiana a salire in libera vie importanti per la loro difficoltà tecnica come Tom et Je Ris (Verdon), Digital Crack sul massiccio del Monte Bianco e, in giornata, la Via Attraverso il Pesce in Marmolada», scrive di sé sul proprio sito. Le abbiamo posto qualche domanda per poter comprendere a fondo il suo percorso, che è stato umano e interiore prima che sportivo.
Mingolla Groenlandia La Cura
In Groenlandia, sulla Via La Cura (2019) © Edoardo Sacco
Federica, dopo tanti anni hai ormai quasi abbandonato l’arrampicata sportiva indoor o sei ancora interessata a quel tipo di attività? «Le competizioni le ho definitivamente abbandonate. Adesso pratico l’arrampicata sportiva indoor per allenarmi durante l’inverno, quando le alternative all’aria aperta sono poche. Mi alleno su un muro che mi sono costruita da sola. Ovviamente l’arrampicata indoor che faccio adesso non è assolutamente paragonabile a quella delle competizioni. Soprattutto perché ora non mi interessa arrivare al primo posto, ma mi alleno focalizzata su un obiettivo che mi sono posta per l’estate».
Mingolla arrampicata sportiva 2013
Una giovanissima Federica nel campionato italiano assoluto di arrampicata sportiva (2013) © Archivio Federica Mingolla
Per quanto riguarda l’alpinismo, per ora hai prevalentemente effettuato ripetizioni di vie importanti. Ti piacerebbe aprire nuove vie anche in alta montagna? «Ho già avuto il piacere di aprire una linea in alta montagna nell'estate del 2018, sull’Aiguille Croux, sopra il Rifugio Monzino, insieme Gabriele Carrara. L’abbiamo chiamata L’isola che non c’è, è una via ibrida, che arriva fino al 7b+. L’abbiamo aperta dal basso in cinque giorni nello stile più pulito possibile, con pochissimi spit per la progressione, qualche chiodo e tutto il resto proteggibile a friend. La via si trova sotto i Piloni del Monte Bianco, quindi in alta montagna. Dopo quell’esperienza ho iniziato a guardarmi attorno. Nell’agosto 2019 ho aperto una via in Groenlandia con Edoardo Saccaro, l’abbiamo chiamata La cura. Lunga 450 metri, presenta difficoltà in libera fino al 7b+. In questo caso non si tratta di alta montagna: partendo dalla costa si arriva a un’altitudine di circa 1500 metri, poi inizia la parete. Però a quelle altezze in Groenlandia l’ambiente è già glaciale e io ho provato le stesse sensazioni vissute sul Monte Bianco, a parte, naturalmente, la differenza rappresentata dalla quota. Nella mia zona, le Alpi occidentali, ci sono ancora diverse possibilità di tracciare delle belle vie in quota. E anche all’estero ci sono tante opportunità. Il fatto di poter trovare una nuova via che ti possa realizzare è una delle componenti dell’attività alpinistica che prediligo».
Mingolla Groenlandia Sosta parete
Sosta in parete in Groenlandia © Archivio Federica Mingolla
Cosa pensi riguardo all’alpinismo di carattere esplorativo? «Mi stimola molto l’idea di viaggiare per scoprire luoghi e montagne che qui non abbiamo. La prima spedizione extra europea alla quale ho partecipato è stata in Pakistan nell’estate 2017, insieme ai Ragni di Lecco Luca Schiera e Simone Pedeferri. Ho scoperto un mondo completamente diverso dal nostro, sia come morfologia del territorio che naturalmente come cultura, usi e costumi della popolazione locale. L’idea di fare un viaggio per cercare pareti da scalare con la giusta etica e la voglia di conoscere mi stimola molto. In Pakistan cercavamo una parete arrampicabile senza ramponi, l’abbiamo trovata nella Kiris Valley e salita in puro stile trad, chiamandola Good No Good. Per me è stata un’esperienza bellissima, ho vissuto un’avventura straordinaria in un luogo completamente diverso da quelli a cui ero abituata. Non c’era nessun altro essere umano a distanza di chilometri, inoltre non avevo mai aperto una via in stile trad. Reputo quest’esperienza il mio primo alpinismo esplorativo».
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Sulla Via Good No Good, in Pakistan (2017) © Archivio Federica Mingolla
Cosa ti affascina della professione di guida alpina, cosa ti ha spinto a intraprendere il percorso per ottenere l’abilitazione? «L’idea è nata quando ero istruttrice di arrampicata nella palestra B-Side di Torino. Avevo il mio gruppo di ragazzi e gestirlo mi appassionava molto. Mi motivava soprattutto l’idea di poter trasferire la mia passione agli altri. Contemporaneamente, stavo tornando a praticare lo scialpinismo, che avevo provato già a dodici anni ma che in seguito avevo trascurato, dovendomi allenare per le gare di arrampicata. Dopo aver lasciato le competizioni avevo più tempo a disposizione e la voglia di calzare gli sci e frequentare l’ambiente montano è tornata a crescere. Mi è sempre piaciuto andare in montagna e potevo riprendere a farlo con continuità. Dunque, non ho fatto altro che collegare i puntini. Avevo le potenzialità per farmi il curriculum in poco tempo dato che, come dicevo, lo scialpinismo l’ho sempre praticato. Mi mancava l’alta montagna e la parte ghiaccio. In due stagioni mi sono impegnata per terminare il percorso e diventare aspirante guida alpina. Mi stimola molto l’idea di portare sulla roccia i giovani che arrampicano in palestra. Desidero che possano provare l’esperienza outdoor in modo che capiscano da soli se possa interessargli o meno. A mio parere avere la possibilità di iniziare ad arrampicare su roccia da giovani è un modo per crescere meglio. I ragazzi possono vivere parte della propria quotidianità immersi nella natura, e non solo in palestra dopo la scuola. Riuscire a realizzare i sogni delle persone è, in sostanza, la mia idea di guida alpina, che non si riduce ad aiutare chi si accompagna a mettere la spunta su qualche cima. Il rapporto tra guida e cliente, per come la vedo io, deve essere umano, non solo economico».
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Con gli sci sul Massiccio del Monte Bianco © Enrico Chris Veronese
Dopo aver sperimentato in prevalenza i grandi massicci delle Alpi occidentali, dove pensi di orientarti prossimamente? Sei interessata all’altissima quota extraeuropea? «Ci ho pensato, ma ora non mi sento attirata da quell’ambiente, per diversi motivi. Le spedizioni sugli ottomila sono diventate molto commerciali, e questo aspetto non mi entusiasma. Anche se devo dire che sono rimasta molto affascinata da queste montagne quando le ho viste da vicino. Ma in questo momento non mi sento pronta per quel tipo di alpinismo, in cui l’attesa gioca un ruolo fondamentale. Io tendo a voler fare un sacco di cose subito, sono molto giovanile sotto questo punto di vista. Sugli ottomila potrei finire per voler fare qualcosa quando non ci sono le condizioni. Resta comunque un’esperienza da provare, in grado di essere molto formativa per chiunque».
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Nella Kiris Valley, in Pakistan (2017) © Archivio Federica Mingolla
Com’è stato il passaggio da un mondo con logiche prettamente sportive al mondo alpinistico, che ha caratteristiche totalmente differenti? «Preferisco molto di più il mondo alpinistico, dove prevale la sfida con se stessi. Del resto, non mi sono mai sentita coinvolta nell’ambiente delle gare. Vedevo l’arrampicata sportiva come un modo per migliorarmi, non come una sfida con gli altri e con il costante obiettivo di primeggiare. L’aspetto che più mi infastidiva di quegli anni non era quello di fallire il podio in una data occasione, ma il fatto che spesso non riuscivo a salire come avrei voluto. Anche quando sentivo di avere le giuste potenzialità, mi è capitato di non riuscire a sfruttarle perché venivo assalita da emozioni come il panico e la paura. Ho sempre patito l’aspetto psicologico delle gare. In montagna, anche se ci sono persone che mi guardano mentre arrampico, non ho mai avuto questo tipo di timori, non mi interessa il fatto di essere osservata, giudicata e classificata. Questo aspetto è quello che preferisco dell’arrampicata su roccia e della frequentazione delle Terre alte. Ci vai solo per te stesso, non sei circondata da sguardi indagatori e, quando ci sono, non ci fai caso. Ho sempre pensato che l’arrampicata non può essere riassunta con una classifica».
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Sulla cascata La sorgente del Falco (Valtournenche) © Evi Garbolino
Hai dei modelli di riferimento, magari donne alpiniste? «Sicuramente Catherine Destivelle mi ha ispirata con i suoi video realizzati mentre arrampica in solitaria e in free solo. Rappresenta un modello di donna capace di fare la differenza, soprattutto pensando ai tempi dei suoi inizi. Detto questo, i modelli a cui mi sono maggiormente ispirata sono stati innanzitutto Manolo. L’ho conosciuto anche di persona ed è esattamente come me lo ero immaginato, sono rimasta davvero affascinata dal suo personaggio. Poi c’è Gian Piero Motti: lui ha scritto la storia della Valle Orco, che si trova vicino a casa mia e che ho sempre frequentato. Mi ritrovo molto nelle parole che ha utilizzato per descrivere l’alpinismo e l’arrampicata. Per lui vivere la vita e la montagna deve portare alla felicità, che non si raggiunge con l’arrivo su vette importanti ma grazie a un gesto tecnico in grado di appagare e realizzare. Ritengo importante il concetto di praticare l’alpinismo senza dover raggiungere chissà quale cima. Quelle di Motti sono state vie esteticamente molto belle, ha sempre voluto evidenziare il gesto tecnico dell’arrampicata, e non l’arrivo in vetta».