“Processo a Ueli Steck sì, con Confortola silenzio?" Simone Moro non ci sta

L'alpinista bergamasco torna a parlare delle presunte vette di Marco Confortola, citando prove, testimonianze e foto contestate. “Non è una crociata personale: è una questione di etica alpinistica e rispetto per chi la montagna l’ha raggiunta davvero”.
Simone Moro in una foto scattata nella sua casa di Bergamo mostra l'orologio indicante la quota del Lhotse: 8517 m © Simone Moro

“La morte di Miss Elizabeth Hawley ha favorito queste presunte verità: con lei non ci sarebbe stato il caso Confortola. Lei metteva ‘disputed summit’ se le prove che si fornivano a suffragio della propria scalata erano deboli e se le prove erano addirittura contro lei non registrava neppure la salita. Oggi le prove sono facilissime da avere: foto, GPS, le moltissime persone presenti sugli 8000… come mai non ci sono mai su queste vette?” afferma Simone Moro, che torna sul “caso Confortola”. Ueli Steck ha sofferto per non avere la foto di vetta dell’Annapurna, ma lui non aveva certo bisogno di inventare era il migliore. Allora, perché dovremmo accusare Ueli Steck mentre con Confortola tutti zitti?

Simone Moro fa riferimento alla salita solitaria di Steck compiuta nell’ottobre 2013 quando scalò la parete sud dell’Annapurna per una via nuova, in sole 28 ore, concludendo un itinerario tentato anni prima da Pierre Béghin e Jean-Christophe Lafaille. Steck non aveva prove a supporto della sua salita in quanto aveva perso la macchina fotografica, insieme a un guanto, in una slavina che l’ha colpito durante la salita. Al rientro dalla spedizione sono seguite polemiche, richieste di chiarimenti, interviste serrate al personale presente al campo base e decine di mail agli organizzatori del Piolet d’Or perché gli venisse tolto il riconoscimento consegnatogli nel 2014 per la salita avvenuta nel 2013.

“Quello che stiamo portando avanti non è un trattamento contro Confortola, ma a favore della verità e degli obblighi e doveri di un alpinista: se vai nelle scuole, se vuoi fare il formatore, vuol dire che sei un simbolo di onestà, del senso civico e dei valori. E nei valori c’è anche quello della verità e di saper provare la tua verità. Di accettare il dubbio e la sconfitta. Io stesso non chiederei saldi se si mettessero in dubbio le mie invernali e metterei in fila tutte le prove e testimonianze che ho, e non solo basarmi sulla mia parola o minacciando azioni legali”.

 

Simone, sono queste le ragioni che ti hanno portato a esporti mediaticamente su questa vicenda?

“Io non conosco Confortola e non ho nulla di personale contro di lui. Anzi, ho pietà umana.

Io mi sono esposto quando ho visto che Silvio Mondinelli aveva deciso di parlare e che nessun altro lo avrebbe fatto. Ho parlato in difesa dello status di Mondinelli, portando delle prove a supporto delle mie parole. 

Tra di noi, alpinisti, ce lo siamo sempre detti, tutti hanno sempre saputo che c’erano delle verità da raccontare e delle scalate da provare, ma nessuno della comunità ha mai avuto il coraggio di esporsi chiaramente. Speravo che lo facessero ora, tutti quelli che hanno delle testimonianze. Ma ancora una volta appuro che tra di noi ci si dice delle cose e si ha il coraggio di scalare delle montagne ma non di difendere una verità. Io so benissimo che quello che sto facendo è scomodo, e non avrei alcun bisogno di farlo”.

 

Quale speri possa essere il risultato?

“Probabilmente tra qualche settimana finirà tutto nel dimenticatoio, si perdona tutto a tutti in Italia anche se questa è una faccenda internazionale. Spero però che questo possa servire ad avere più pudore prima di chiamare certe persone simbolo di etica e valori. Esporsi serve a far capire che non è la sensibilità di due ‘vecchietti’ [riferito a se stesso e Mondinelli, nda], e nessuno vuole rubare fama o sponsor a Confortola. Sono felice se si parla di alpinismo ma, se se ne parla a sproposito, allora sì che mi fa male”.

 

Partiamo dall’inizio, qual è il problema?

“Sono stato 121 volte in Nepal, da quasi 35 anni vado li e posso dire che non si muove foglia nel mondo di quelle scalate senza che non lo venga a sapere e come me moltissime altre persone del posto o frequentatori di quei campi base e cime. Oggi è impossibile nascondere qualcosa. Ho raccolto e vi ho mostrato [confermiamo che Simone ci ha mostrato ciò che afferma in seguito, nda] molte versioni di persone diverse che dicono e scrivono nero su bianco che Confortola queste vette non le ha salite. Allora abbiamo chiesto pubblicamente: mi dimostri per piacere che tu queste vette le hai salite? Mi fai vedere le foto di vetta? E già a questa domanda arriva la risposta: tante delle foto di vetta non sono le sue e sono taroccate senza timore di smentita visto che sono state fatte vedere ai veri autori e pure fatte analizzare da esperti grafici e fotografi. 

Se lo fai una volta posso capire: sei stato in cima al Lhotse e non hai fatto la foto? Ne chiedi una ad un alpinista che ti ha preceduto o che ci è stato? Lui accetta di dartela, però lo comunichi subito che stai pubblicando una foto non tua. Ma in realtà qui le cose sono andate molto diversamente: lui ha chiesto la foto per poi creare la propria foto di vetta che però da più testimonianze non ha raggiunto”.

 

In che senso?

“La foto che Confortola ci presenta come sua foto di vetta del Lhotse, in realtà è dello spagnolo Jorge Egochega, che ha scalato tutti i 14 Ottomila senza ossigeno. Mi ha scritto pochi giorni fa: ‘Appena arrivato a campo base è venuto da me [Confortola, nda] e mi ha chiesto la foto di vetta. Io gliel’ho data e poi tristemente ho scoperto che l’ha usata per sé. Sai Simone, che non amo la polemica, ma non è stato bello che abbia costruito la foto di vetta con questa menzogna’.

Però, mettiamo che non sia così. Mettiamo per assurdo che non sia una dichiarazione corretta. C’è anche un’altra testimonianza, quella di Alex Txikon, anche lui sul Lhotse nello stesso giorno. Mi chiama e mi chiede ‘È uscita la notizia che Confortola è stato in cima al Lhotse? Io l’ho incrociato mentre scendevo, gli abbiamo detto che era troppo tardi, lui piangeva per essere ancora lì. È andato su un pezzo, l’abbiamo guardato salire nel canale, ha fatto ancora un tratto di salita, poi ha girato i tacchi ed è sceso’. 

Lui ha preso la foto di un altro e ha fatto un fotomontaggio senza dire nulla. Capite che c’è qualcosa che non va?  Qui non si tratta della mia parola contro la sua. Sforzandomi nel massimo della pietà umana, penso che Confortola abbia una sorta di patologia. Ha la sua verità di quei momenti vissuti lassù, dove nessuno è lucido, e grida questa verità con tutta la sua convinzione. Ma questo non significa che si possa costruire una carriera sulla menzogna o sulle tue pseudo allucinazioni di vetta. Può essere forse un'attenuante ma l’illecito non cambia".

Dicevi prima che ci sono anche altre cime in dubbio…

“Si, il Makalu per esempio. La prima testimonianza è del 2017 raccontata davanti a me, Tamara Lunger e Fabrizio De Francesco. Ci trovavamo al campo del Kangchenjunga, abbiamo provato la salita, ma non siamo riusciti a fare vetta. Scesi al campo base c’era con noi l’alpinista indiano Arjun Vajpai che ha scalato tutti gli Ottomila del Nepal. Arjun viene da noi e ci parla: dice che è andato in cima lo stesso giorno di Confortola, con ossigeno e con sherpa. Poi, scendendo, ha incontrato un alpinista che si faceva una foto con una bandiera con il numero 58, fatta la foto ha piegato la bandiera e poi è sceso con noi. Era un italiano. 

L’italiano che mostra una foto del Makalu con la bandiera 58 è Confortola. Ma dato che non volevo parlare solo sul sentito dire, sulle parole, nei giorni scorsi ho scritto ad Arjun che mi ha così risposto per iscritto: ‘I saw him making pictures even below false summit’ - L'ho visto fare foto anche sotto la falsa vetta –.

La foto da lui pubblicata non è la foto di vetta”. 

 

Come fai a dirlo?

“Io sono stato in cima al Makalu, in inverno, e sono tornato sulla montagna diverse volte anche quest’anno con l’elicottero, per i soccorsi. Ho visto centinaia di foto di vetta del Makalu: quella non è la foto di vetta, ma è parecchio più in basso. Quelle rocce dietro di lui non sono nemmeno nella parte finale della cresta sommitale: sono a circa 8300-8350 metri, con ancora una ora di salita o più da fare a seconda che scali con o senza ossigeno”.

 

Quindi circa 180 metri sotto la vetta, giusto?
“Esatto. Qualcuno potrebbe pensare che sia poco, ma a quelle quote no. C’è gente che è morta anche solo per 20-30 metri. Io mi sono fermato a 91 metri dall’Annapurna; a 198 metri dall’invernale al Broad Peak nel 2008; mi sono fermato al Makalu nel 1993, sulla Kukuczka, a 164 metri dalla cima. Anche io ho pianto, ma non mi è venuto in mente di raccontare bugie, ho costruito il tentativo successivo e sono tornato. E non è finita, sai?”

 

Dimmi

“Ho contattato l’agenzia che ha organizzato la spedizione al Makalu di Confortola, la Seven Summit Treks, e il general manager Thaneswar Guaragai mi ha detto: ‘non gli abbiamo dato il certificato di vetta perché lo sherpa, Prakash, ci ha detto che si sono fermati e sono tornati indietro’”.

 

A proposito dei certificati, noi abbiamo spiegato quali sono le regole che li governano. Ci spieghi come funzionano a livello pratico?

“Dimmi la montagna che vuoi e ti faccio avere il tuo certificato. 

Pensare di cavarsela con un pezzo di carta in un Paese come il Nepal o il Pakistan fa sorridere. Ovviamente per avere il certificato di vetta bisogna che coincidano un po’ di cose: devi essere inserito in un permesso per una montagna di ottomila metri, devi esserci andato e devi averci provato. L’elemento più importante è il debriefing dell’ufficiale governativo. Ogni spedizione ne ha uno, è obbligatorio. Sta al campo base e controlla che scali la montagna per cui hai pagato, controlla che non sporchi e che riporti a valle i tuoi rifiuti e raccoglie le informazioni che vengono riportate dall’alpinista, dagli sherpa e dai sirdar. Al rientro dalla spedizione presenta il debriefing alle autorità e, in contemporanea, viene presentata anche la relazione dell’agenzia di trekking. A questo punto, se tutto coincide, viene rilasciato il permesso di salita. Ma c’è un problema”.

 

Quale?

“Solo l’ 1% degli ufficiali governativi va al campo base. Tu devi pagarlo, circa 3000 dollari più 1500 dollari in attrezzatura utile alla sua permanenza al campo base (vestiti, scarponi, guanti, cappellini, ecc). Molto spesso propongono agli alpinisti di non dare il materiale, in cambio di una cifra leggermente maggiorata. Poi nel mese di spedizione si nascondono in casa e non si fanno vedere in giro. Quando l’alpinista rientra si presentano in hotel, raccolgono le informazioni, preparano la dichiarazione e la portano al debriefing. Gli ufficiali governativi diventano così i primi a basarsi sul solo racconto degli alpinisti. Una fortuna che oggi si tenga conto anche della relazione dell’agenzia di trekking, che è molto più attendibile. Se infatti un’agenzia dichiara il falso rischia di perdere la licenza. Se il rapporto dell’agenzia è diverso da quello dell’ufficiale viene aperta una commissione d’inchiesta per verificare gli accadimenti.

Questo ovviamente vale per il Nepal, in Pakistan il discorso cambia leggermente ma non in meglio”. 

 

Cioè?

“Basta che gli dai 100 dollari a tizio e a caio e se non ci sono smentite in atto ti danno tutti i certificati che vuoi e poi sappiamo e abbiamo visto che in alternativa esiste anche l’opzione photoshop”.

 

Torniamo in Nepal, dove rimane aperta la questione Kangchenjunga di cui ci hai già parlato…

“Sono stato io a scoprire che la foto ritagliata pubblicata con la scritta ‘MC’ non era sua ma era di un altro alpinista, Shehroze Kashif, alpinista pakistano che vive negli Stati Uniti e ha scalato tutti i 14 Ottomila. Ci siamo sentiti pochi giorni fa, e questo è quello che mi ha raccontato per iscritto: ‘Io e Nuri Sherpa siamo stati i primi ad arrivare in cima alle 16-16.30’. A questo punto ho subito ribattuto che Confortola, secondo sue dichiarazioni, sarebbe arrivato alle 14.30, e lui: ‘No, noi abbiamo incontrato Confortola in discesa mentre noi salivamo. Per un po’ abbiamo ancora trovato le sue tracce, ma a un certo punto si interrompevano. Il primo ad andare in vetta è stato Nuri Sherpa, che ha dovuto battere traccia e posizionare le corde fisse, io a seguire. E non abbiamo visto nessuna traccia che andava in cima. Qui ci siamo fatti le foto e siamo scesi. Ho poi scoperto dopo che la mia foto era stata ritagliata. In seguito ho poi ricevuto delle lettere di scuse’. E così siamo alla seconda foto presa da altri e spacciata per sua. 

Lasciamo perdere la foto del suo orologio altimetro spacciata come prova della vetta. Fai la foto della quota riportata e non fai foto della cima e di te lassu?! Ieri sera a tavola a Bergamo ho messo la quota del Lhotse sul mio orologio. Giuro che ero a casa e non in vetta".

 

Una versione, quella di Shehroze Kashif, che viene sostenuta sia dall’agenzia, sia da Nuri Sherpa.

“Esatto. E io l’ho intervistato Nuri Sherpa, perché ero lì. E Marco Confortola è l’ultima persona che ho portato al campo base in elicottero, ad inizio spedizione con l’ultima rotazione. Era seduto davanti a 50 centimetri da me. Si è tirato su il bavero, fino al naso, aveva gli occhiali da sole e la berretta inconfondibile del suo sponsor e ha fatto tutto il viaggio guardando fuori dal finestrino facendo finta di non conoscermi. Io mi sono detto: va beh, non avrà voglia di parlarmi e l’ho portato al campo base.

Alla fine della spedizione è rientrato con un altro elicottero, mentre io ho portato giù i suoi bidoni e anche Nuri Sherpa. Così abbiamo avuto modo di parlare io e lui e filmare a mo di selfie la nostra conversazione; mi dice che è soddisfatto a metà della sua salita e che non sono arrivati in cima e così non ha ricevuto il summit bonus. La stessa cosa che racconta anche nel report dell’agenzia, Seven Summit Treks. Qui dice: ‘Siamo arrivati a 8300 metri, ho provato a convincerlo [Confortola, nda] in tutti i modi a usare l’ossigeno per proseguire verso la vetta, ma la sua risposta è stata: la vetta è qui’.

Quando infatti l’agenzia pubblica i nomi di chi ha fatto vetta ma il suo nome [di Confortola, nda] non c’è, lui si arrabbia e scrive all’agenzia. Perché non l’hanno inserito? Perché non è andato in cima, ce l’ha detto Nuri Sherpa, rispondono. Lui ribatte e l’agenzia risponde che non può fare dichiarazioni false. Ma la Seven Summit Treks fa qualcosa in più”.

 

Spiega.

“Gli offre l’opportunità di rimanere al campo base, riposarsi per qualche giorno, e ritentare la cima. Gli dicono che ci sarebbe stata una nuova e ultima ondata di gente per la vetta. E lui poteva rimanere, gratis. Ma la risposta è stata che doveva andare a casa per problemi di oftalmia. Inoltre c’è anche la dichiarazione di Wilco Van Rooijen, che al campo base del Kangchenjunga era venuto come tutti a conoscenza del dietro front di Confortola ed era andato a consolarlo e a proporgli di tentare nuovamente ma Confortola stizzito ha risposto che era andato in cima".

 

Ci sono altre vette contestate?

“Ci sono altre vette su cui ci sono dubbi: l’Annapurna, con la testimonianza di Mondinelli, che era lì; il Nanga Parbat con dichiarazioni dello stesso Confortola che non era andato in cima e locandine di conferenze - di cui ho la fotografia - che Confortola ha fatto con il titolo stampato a indicare che avrebbe spiegato la sua rinuncia. Ora di colpo cambia versione? Anche la foto del Dhaulagiri che ha fornito è un evidentissimo punto antecedente di almeno di un centinaio di metri lineari dalla cima. O entriamo in una disputa dove basta arrivare a 150-200 metri dalla vetta e sei considerato in cima, oppure bisogna essere onesti. 

Ti dico un'altra cosa che non va giù a molti: I giornali titolano ‘I 14 Ottomila senza ossigeno’ e tu non dici nulla?”

Però non è una sua dichiarazione…

“È vero ma se un giornale scrive una cosa non vera la rettifichi attraverso i social o con un comunicato, non lasci andare con connivenza. Io, per non essere in torto, ho controllato e sull’Himalayan Database la relazione in inglese afferma che la vetta dell’Everest sia stata raggiunta utilizzando l’ossigeno, dai 7300 metri. È importante ricordarlo e precisarlo quando escono notizie dove il pressapochismo di molti media racconta i 14 Ottomila senza ossigeno. No, non sono senza ossigeno, non sono senza guide sherpa, e non sono senza corde fisse. Io stesso ho scalato l’Everest con ossigeno e l’ho scritto e detto in tutte le salse, sempre.

Non si può pretendere di scrivere la storia dell’alpinismo su una menzogna. Mondinelli ha ragione quando dice che c’è gente che ci ha lasciato la pelle per la vetta. Sempre Mondinelli ha proposto una bella idea”.

 

Quale? 

“Lui dice che ‘è la mia parola contro la sua’? Allora organizziamo un confronto pubblico. Sediamoci allo stesso tavolo, con tutti gli attori e componenti delle varie spedizioni a cui ha partecipato e parliamo. Mondinelli c’è e ci sono anche io e con noi invitiamo tutti quelli che hanno portato versioni e dichiarazioni diverse dalle sue che io definisco a favore della verità. Siamo tutti bugiardi? C’è in atto un complotto internazionale contro di lui? Sherpa che danno versioni, fotografie truccate, testimoni oculari, tutto solo e tassativamente falso? E per cosa? Per offuscare una bella e prestigiosa collezione fatta ormai da decine di persone sulla pista battuta con corde fisse già posizionate e con l’aiuto di sherpa? Tutti si sarebbero ora esposti solo per questo? E quale sarebbe la convenienza e il tornaconto per farlo? Alpinisti affermati che si prendono la briga di parlare lo fanno solo per non essere omertosi di fronte ad una piega non certo virtuosa del modo di raccontare l’alpinismo e le cime raggiunte. Dai siamo seri, non vi sembra così evidente che valga la pena un esercizio di onestà e verità su tutta questa vicenda alpinistica?"