La parete sud-ovest dell'Alpamayo © Archivio Ragni della GrignettaQuando si parla della montagna più difficile, fra gli alpinisti la discussione è aperta: c’è chi pensa all’Everest, che svetta fino a sfiorare le rotte dei jet, un colosso dove la quota è già di per sé una sfida estrema. C’è chi indica senza alcun dubbio il K2, 200 metri più basso del “Tetto del Mondo” ma molto più sfidante dal punto di vista delle difficoltà tecniche. E poi c’è il Cerro Torre, quell’urlo di pietra e di ghiaccio verticale che si staglia come un totem nei cieli tempestosi della Patagonia.
Ma se si ragiona in termini di bellezza assoluta, la discussione si spegne. Quasi tutti concordano: la montagna più estetica del mondo è l’Alpamayo. Un merletto di ghiaccio e neve leggero come un sogno, alto quasi 6000 metri – 5947 per l’esattezza – che svetta nella Cordillera Blanca del Perù. Nel 1966 la rivista tedesca Alpinismus lo incoronò ufficialmente come vetta più bella del Pianeta, superando persino icone come il Cervino, il Fitz Roy e lo stesso K2.
I Ragni in salita sull'enorme parete sud-ovest dell'Alpamayo © Archivio Ragni della GrignettaCosa rende l’Alpamayo così speciale?
Forse il fatto che sembra irreale. Una montagna fatta non di roccia, ma di luce, di vento e di ghiaccio modellato come zucchero filato. La sua materia sembra impalpabile: le perturbazioni che salgono dall’Atlantico si infrangono sulle Ande e lì restano, sospese, trasformandosi in neve e ghiaccio. Il vento poi scolpisce, il sole plasma, e la montagna cresce: meringhe gigantesche, creste orlate, pareti scolpite da valanghe che incidono rigole come canne d’organo, seracchi a forma di archi gotici. E ogni giorno cambia, si trasforma, ma resta sempre lei: la montagna dei sogni.
Curiosamente, il suo nome – “Alpamayo” – deriva dal quechua e significa “fiume di fango”. Una beffa, un errore toponomastico: quel nome, in origine, apparteneva a una fattoria alle pendici della montagna. I locali chiamavano la cima “Shuyturahu”, cioè “la montagna affilata”. E basta guardarla dal versante nord per capire perché: è una freccia, una lama che sale nel cielo.
Nel 1951 una cordata francese salì proprio quella cresta affilata, convinta di aver raggiunto la cima. In realtà si fermarono su un’anticima: il vero vertice fu conquistato solo sei anni dopo da quattro tedeschi lungo la cresta opposta, quella sud.
Ma il volto che ha reso l’Alpamayo una leggenda è un altro: quello della parete sud-ovest. Non si tratta certo di un colosso – la parete vera e propria è alta appena 300 metri – ma è un gioiello di forme e luce. Per salirla bisogna infilarsi nei suoi canaloni ghiacciati, le “canaletas”, che segnano la parete come il mantice di una fisarmonica verticale.
Un sogno, sì, ma anche un incubo. Perché tutta quella bellezza è anche pericolosa: le canaletas sono trappole micidiali per valanghe e scariche di ghiaccio. Basta un raggio di sole, e tutta la parete si mette in movimento. A partire dagli anni Sessanta, ben quindici spedizioni tentarono invano di scalarla. Macario Angeles, leggendaria guida della Cordillera, la chiamava “la parete della morte”.
Ci voleva qualcuno di speciale per fare i conti con una sfida del genere, qualcuno che sul ghiaccio instabile delle vette australi aveva già dimostrato di saper fare cose che “non si leggono sui manuali”.
Casimiro Ferrari all'Alpamayo © Archivio Ragni della GrignettaDal Cerro Torre all'Alpamayo
Il momento fatidico arrivò mezzo secolo fa, nel giugno del 1975, quando, ai piedi dell’Alpamayo, si presentò una spedizione italiana guidata dal Ragno di Lecco Casimiro Ferrari, fresco di leggenda. L’anno precedente era stato infatti il leader della prima salita della parete Ovest del Cerro Torre. E adesso era lì, davanti alla montagna dei sogni, con la stessa tenacia e la stessa determinazione.
Con lui c’erano altri Ragni, protagonisti del Torre: Pino Negri e Angelo Zoia. Poi il giovane Pinuccio Castelnuovo anch’egli da poco entrato nelle fila dei Maglioni Rossi, il navigato scalatore lombardo Danilo Borgonovo, il medico Sandro Liati e due supporter: Giacomo Pattarini e Franco Busnelli, imprenditore e sponsor dell’impresa, in tempi in cui le sponsorizzazioni in alpinismo erano pura avanguardia.
Salire la sud-ovest non era solo una questione tecnica, ma anche logistica: per arrivare al campo base, il gruppo dovette organizzare una carovana con 50 asini. Non c’erano agenzie, né GPS, né supporto aereo. Tutto veniva portato a spalla o sul dorso di animali.
Le attrezzature erano quelle che erano: piccozze e ramponi classici. Ma i Ragni avevano un’arma segreta: i fittoni di alluminio, lunghi anche un metro, che permettevano ancoraggi solidi persino nel ghiaccio inconsistente andino. E poi c’era l’esperienza: avevano imparato al Torre a destreggiarsi sul ghiaccio verticale e strapiombante, anticipando la moderna tecnica della piolet traction.
Montarono due campi avanzati e iniziarono a salire la canaleta più diretta. A metà giugno erano ormai in alto, a un passo dalla cima. La cordata di testa avrebbe potuto chiudere la partita. Ma Casimiro quel giorno era rimasto al campo a girare il film della spedizione. E Pino Negri diede lo stop: “Non si va in vetta senza di lui”. La cima della montagna più bella non poteva essere negata a chi aveva guidato i Ragni su quella più difficile.
Un azzardo enorme: il meteo poteva cambiare, la finestra di bel tempo poteva chiudersi. Ma il Re Azul, il vento delle Ande, quel giorno decise di essere clemente. E così, il 20 giugno 1975, Casimiro e tutti gli alpinisti raggiunsero la cima, lungo quella che oggi si chiama “Canaleta Ferrari”, divenuta poi una delle più classiche e ambite salate andine.