I 5 della spedizione
I 5 della spedizione con il Maggiolino
Verso il campo base con i cavalli
Verso il campo base con i cavalli
La nota ritrovata dagli alpinisti turchi sulla vettaUna scatola di latta arrugginita, protetta da qualche pietra, per evitare che il vento se la portasse via. È stata ritrovata in cima all'Atalani Tepesi (3428 m), da parte di una spedizione turca del Club di Alpinismo e Sport Invernali Camadan. Ci troviamo nei Monti Kaçkar, nella storica regione del Lazistan, e dentro a quella scatoletta c'era un piccolo foglietto con una nota a matita, una di quelle che emoziona quando la ritrovi, perché apre le porte a una storia che oltrepassa i tempi, che unisce generazioni, che spinge a fare ricerche per scoprire qualcosa in più.
"20 - 8 - 72
Spedizione CAI
Pordenone
Italy
Quota 3510
Enzo Laconca
Giovanni Martin"
È la storia di cinque ragazzi, di cinque alpinisti del CAI Pordenone che, nell'estate del 1972, erano partiti alla volta della Turchia. Pochi soldi in tasca e tanta voglia di avventura. Oggi chiamato Atalanı Tepesi - letteralmente “campo dei cavalli” - per gli italiano era Hunut Dağı, dal nome del vicino villaggio da cui partì la spedizione.
I cinque avevano degli obiettivi grandi, avevano messo in piedi una spedizione dal duplice obiettivio: una parte scientifica e una parte alpinistica. A guidarli era il professore di filosofia e storia Silvano Zucchiatti, “nostro socio e, per diversi mandati Presidente della Sezione, era già stato nella in Turchia nel 1969 e, sulla scorta di vaghe informazioni, aveva raggiunto la catena del Kaçkared aveva rilevato che c'erano zone inesplorate ed alcune cime inviolate” ricorda il presidente della sezione di Pordenone del CAI, Alleris Pizzur. “Nell'agosto-settembre del 1972, su sua richiesta, la Sezione di Pordenone ha organizzato una spedizione in quei luoghi con Silvano a capo”. Con lui i compagni Sisto Degan, Enzo Laconca, Gianni Martin ed Ezio Migotto. Carichi di attrezzatura e cibo erano partiti a bordo di due Maggiolini Volkswagen con i musi puntati a est, e la mente già proiettata a quelle cime inviolate dei monti Kaçkar. Vette di cui avevano sentito parlare ma che non avevano mai visto, nemmeno in foto. Solo Zucchetti aveva già avuto qualche esperienza in quelle zone.
“Per pagarmi il viaggio avevo venduto il mio stereo: non avevo molti soldi, facevo l’operaio alla Zanussi” ricorda Gianni Martin, uno dei protagonisti ancora in vita di quella fortunata spedizione. Con le macchine cariche all'inverosimile il motore tirava verso oriente e le ruote mordevano l'asfalto pregustanto l'avventura. In una manciata di giorni i cinque attraversarono Jugoslavia, Grecia e Turchia, fino a raggiungere il confine con la Georgia. Erano pochi gli occidentali che venivano da queste parti al tempo, e forse anche oggi. Poco lontano dal loro obiettivo c'era infatti il confine con l'URSS, terra misteriosa per noi occidentali, confine invalicabile.
A supportarli nell'organizzazione logistica della spedizione furono i geologi del Development Project of Lazistan Area dell’ONU, che incontrarono una volta entrati in Turchia. “L’accoglienza è calorosa; i tre geologi preposti alle ricerche, il finlandese Kys Lumihao, lo jugoslavo Sekik Talie ed il turco Omar Ercan, si mettono a nostra disposizione per quanto riguarda le necessità organizzative più immediate” scriveva Silvano Zucchiatti su, Le Alpi Venete 1972. “Inizia, quindi, in comune un accurato esame delle foto aeree della zona, sprovvista di cartografia, e ci vengono indicate con precisione le località e le caratteristiche dei campioni di rocce da prelevare; veniamo anche muniti di schede su cui registrare tutta una serie di dati riferiti al prelievo”.
Ritornati in auto proseguirono ancora per diverse decine di chilometri, sempre più vicini al loro obiettivo. Poi, “la strada finì e fummo costretti a lasciare le auto e a noleggiare dei cavalli con i quali trasportare tutto il nostro materiale: viveri e attrezzatura” ricorda Martin. "Con una marcia di nove ore, risaliamo tutto il corso del torrente Hunut fino alla sorgente: un verde e romantico lago glaciale circondato da torrioni granitici - riportava Zucchiatti -. Lavoriamo rapidamente per organizzare il primo campo, mentre vediamo i nostri accompagnatori, voltati i cavalli, ridiscendere lentamente". Si trovavano sulle rive del Lago Yildiz, a 2800 metri, immersi in uno scenario glaciale di rara bellezza. Si tratta della “base più centrale per il settore che dalla Cima Principale del Kackar (3932 m) si allunga a sud ovest e culmina con il Monte Hunut Dag Ovest (3510 m); al di là di questo si trova il Tatoc Bogazi che separa in modo netto il resto della Catena, la parte più occidentale, il Vercenik (3711m)”.
Dopo tanto viaggiare, era finalmente il momento di mettere le mani sulla roccia. E c'è da dire che non vedevano l'ora probabilmente. Rileggendo tra le righe di questa storia spicca infatti un “bottino” notevole. “Le arrampicate si susseguono; le relazioni delle vie nuove e delle prime salite si ammucchiano; i campioni di rocce ed i rilievi topografici invadono lo spazio delle nostre tre tende”. Sono giorni intensi che si concludoni con 32 cime raggiunte, di cui 19 inviolate. “Un giorno finimmo i viveri - ricorda Martin -, io e Laconca scendemmo fino a una casermetta militare passando attraverso valli incontaminate ricche di acqua, fiori e pini con i tronchi contorti per il vento. È stata una spedizione di cui ho ancora un ricordo molto vivido e bello, degli amici e della gente che abbiamo incontrato e che ci ha aiutato. Eravamo giovani e andavamo a scalare anche in libera, ma sempre con intelligenza e attenzione, senza mai strafare”.
È la storia di cinque ragazzi che hanno “assaggiato la carne dell'orso” vivendo l'avventura, con ambizioni che deragliano dai binari classici della vita per farcela scoprire veramente, la vita. Esce dai ricordi di Martin, dal suo sorriso quando l'abbiamo incontrato casualmente sui sentieri di Malga Coltrondo ed è ritornato a raccontare le emozioni di quegli anni gloriosi, indimenticabili.
Un amico qualche anno fa diceva che a spingerci a fare tutto questo, a patire volontariamente la fame, il freddo, a sopportare la fatica insita nell'alpinismo, è probabilmente la semplice ambizione di avere qualcosa da ricordare quando si è vecchi. E anche, forse, per la capacità che queste storie hanno di emozionare ed entusiasmare chi le riscopre, chi le ascolta. “Nel momento in cui abbiamo trovato la nota sulla vetta, ci siamo resi conto di non essere soli. È stata una grande gioia vedere che lo sport che pratichiamo ha una dimensione internazionale e sentire che lo stesso panorama era stato osservato 53 anni fa. La spedizione del CAI del 1972 ci ha mostrato che amici amanti della natura, giunti da lontano, avevano provato questa stessa emozione prima ancora che noi nascessimo” hanno raccontato gli alpinisti turchi del Club di Camadan che hanno effettuato il ritrovamento. “La vetta di Atalanı, pur non essendo una delle principali del nostro gruppo, ci ha emozionato. Sapere che anche gli alpinisti italiani l’avevano raggiunta ci ha fatto sentire parte di una storia più grande”.