La parete nord dell'Eiger © Wikimedia CommonsNegli anni Ottanta del Novecento l’alpinismo sceglie la strada dello sport. La via è segnata, ed è quella della velocità e dei concatenamenti da fantascienza. Nel 1985 si apre la corsa sulle tre storiche pareti nord delle Alpi occidentali: Cervino, Eiger e Grandes Jorasses. Il trittico che vent’anni prima indorava il curriculum di una vita intera, per l’alpinista famoso, diventa la meta di una giornata. Il 25 luglio Profit realizza il progetto extraterrestre di salirle tutte e tre di fila: quattro ore per il Cervino, sei ore e quarantacinque minuti per l’Eiger, poco più di quattro ore per il Linceul delle Jorasses, dove Desmaison era stato più di una settimana. Per gli spostamenti da una parete all’altra Christophe usa l’elicottero, attirandosi numerose critiche.
Con l’acceleratore a manetta
Non è finita: nel marzo 1987 Profit e il rivale Eric Escoffier si inseguono sulle stesse pareti in inverno, seguendo il rituale quasi inevitabile della nuova sfida. La spunta Christophe, che in quarantadue ore mette insieme lo sperone Croz alle Grandes Jorasses, l’Eiger e il Cervino. Escoffier, leggermente in ritardo, non riesce a completare il trittico.
Altri record di velocità si ispirano alla tradizione classica, sempre con l’acceleratore a manetta. Nel febbraio 1986 le guide svizzere André Georges ed Erhard Loretan uniscono in una fantastica traversata non stop trentotto cime del Vallese, dal Dôm de Mischabel al Weisshorn, scalando trenta vette oltre i quattromila metri. Loretan spiega che “i concatenamenti sono l’evoluzione logica della storia e non sono in contraddizione con la filosofia dell’alpinismo classico. La spinta di base è la stessa, ma la ricerca non è più indirizzata alla via nuova quanto al miglioramento delle tecniche che permettono di percorrere in modo nuovo gli itinerari già conosciuti”. Nelle prestazioni classiche di Loretan non compare l’elicottero, ma secondo l’etica scozzese di Simon Jenkins e Martin Moran bisogna eliminare anche l’automobile e la funivia: è esclusivamente a piedi e in bicicletta, infatti, che Simon e Martin concatenano ottantadue vette alpine di oltre quattromila metri dal 23 giugno al 13 agosto 1993. Ormai non ci sono limiti.
Quali sono i limiti?
Non stupisce che l’alpinismo di punta comporti rischi elevati, è sempre stato così, ma dopo gli exploit e le morti annunciate degli anni ottanta e novanta la comunità alpinistica si chiede se non si stia esagerando. Da dove viene questo fervore inarrestabile? Chi ha contratto per primo la febbre della velocità? Chi è stato a diffondere il contagio? La risposta non può prescindere da una valutazione storica sui due ultimi decenni del Novecento: la velocità è la logica estensione della maggiore abilità, che a sua volta deriva dall’approccio sportivo alla montagna. Il primo innovatore è stato il fortissimo grimpeur francese Patrick Berhault, che già alla fine degli anni Settanta correva, collegava, inventava e stupiva, esportando in montagna i miracolosi progressi della falesia. Nel 1979 gli accademici di Francia lo avevano eletto a malincuore il migliore alpinista dell’anno, anche se Patrick non aveva niente del duro o dell’eroe: somigliava piuttosto a un ragazzo sognante e scalava con la stessa passione una roccia in riva al mare e una parete a 4000 metri. Anche questo era mistero, il sale dell’alpinismo di ogni tempo.