Alta montagna, sui ghiacciai l'aumento delle temperature raddoppia

Lo studio coordinato da UniMi e pubblicato su Nature Communications. Ficetola: "La neve rallenta l'effetto dei cambiamenti climatici, ma ce n'è sempre meno"
Il Ghiacciaio dei Forni © Francesco Ficetola

Negli ultimi vent’anni le aree prossime ai ghiacciai si sono scaldate il doppio rispetto a quelle situate ad appena tre chilometri di distanza. E hanno sperimentato un fortissimo incremento medio della lunghezza della stagione senza neve al suolo: tra le due e le quattro settimane all’anno. Il che significa che a soffrire di più delle conseguenze del cambiamento climatico sono le aree di alta montagna dove, in tutto il mondo, gli ecosistemi stanno cambiando a una velocità senza precedenti. È questa l’istantanea scattata da un gruppo di ricercatori internazionale, coordinato dall’Università degli Studi di Milano e dall’Istituto di geoscienze e georisorse del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Igg), in collaborazione con il Muse-Museo delle Scienze di Trento e la University of Texas-Austin, pubblicata sulla rivista Nature Communications.

Il lavoro dei ricercatori è frutto, anche, di una lunga fase di raccolta dati sul campo, con 175 stazioni microclimatiche piazzate in diverse aree del mondo (dalle Alpi, alle Ande del Perù, fino alle isole Svalbard, vicine al Polo nord) e 706.810 valori relativi nel periodo 2011-2021. E che, incrociati con quelli (più macroscopici) raccolti dai satelliti, hanno consentito di sviluppare una mappa dei cambiamenti climatici degli ultimi vent’anni, producendo così la carta più dettagliata ad oggi esistente della temperatura nelle aree di alta montagna, in grado di rilevare le differenze tra zone situate anche a poche decine di metri di distanza.

Una delle fasi di campionamento © Francesco Ficetola

«Quello che abbiamo constatato – afferma Francesco Ficetola, professore ordinario del dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’università di Milano – è che alcune aree di alta montagna si stanno riscaldando ancor più di quanto atteso dai modelli globali. La situazione è particolarmente grave nelle aree tropicali e sub-tropicali, e per le zone in prossimità dei ghiacciai».

Considerando la media annua, dal confronto tra il quadriennio 2016-2020 e quello 2001-2005 è emerso che l’incremento è stato consistente soprattutto nella zona intertropicale (+0,75 gradi) e nell’emisfero australe (+1,02). Ma è guardando alla differenza tra le variazioni registrate nella durata della stagione con neve al suolo che lo scarto, tra aree prossime ai ghiacciai e non (in questo caso, si considerano le aree a 3 chilometri di distanza), si fa ancora più marcata: nell’emisfero meridionale, i decrementi medi sono stati, rispettivamente, di 23 e 2 giorni; nella zona tropicale, di 20 e 0,5 giorni; nell’emisfero settentrionale di 13 e 4 giorni.

Ma perché è l’alta montagna a soffrire di più? A spiegarlo, è ancora Ficetola: «I motivi sono fondamentalmente due. Anzitutto, per la neve: al suolo, produce un effetto “isolante”, rallentando il riscaldamento; ma se in inverno nevica meno, significa che la copertura rimarrà per meno tempo. E appena la neve si scioglie, la temperatura sale immediatamente. In secondo luogo, per i ghiacciai: quando si sale in quota, e ci si mette davanti a un ghiacciaio, si nota immediatamente il vento freddo generato dalla sua presenza (tecnicamente, il vento catabatico); dal momento che i ghiacciai si stanno ritirando, si riduce l’effetto “raffreddante”. Un po’ come quando si spegne il condizionatore».

A risentirne sono (e saranno) anche coloro che, in montagna, vivono e lavorano. «Non dobbiamo dimenticare – continua Ficetola – che il clima non è l’unico aspetto legato ai cambiamenti climatici: c’è anche l’acqua. La diminuzione delle precipitazioni, piovose e nevose, produce effetti palesi sull’agricoltura: se piove meno, ruscelli e fiumi avranno un regime meno regolare e più torrentizio, con una disponibilità idrica più irregolare che produce conseguenze, a cascata, su tutta la filiera».. E poi c’è il turismo. «La mancanza di neve – afferma sempre il ricercatore – è la modificazione del paesaggio montano che notiamo di più. Ci sono aree, dove negli anni Ottanta sono stati costruiti gli impianti da sci, dove oggi, da dicembre a febbraio, di neve non se ne vede più».

Francesco Ficetola © UniMi