Ama Dablam 1985: un passaggio di testimone verso l’Himalaya

Nel 1985 una spedizione del CAI Ballabio compie la prima ripetizione italiana della cresta nord dell’Ama Dablam. Una salita simbolo, tra passaggio generazionale e rinascita dell’alpinismo lecchese.
In cima all'Ama Dablam © Archivio Ragni di Lecco

Ci sono salite che magari non sono prime assolute, ma che rappresentano dei punti di svolta, dei momenti fondamentali in un percorso di crescita che porta verso risultati ancora più ambiziosi.

È questo il caso della prima ripetizione italiana – e quarta in assoluto – della via dei francesi alla cresta nord dell’Ama Dablam, la splendida cima himalayana di 6856 metri che si innalza nella valle del Khumbu, non molto distante dai colossi dell’Everest e del Lhotse.

 

L'Ama Dablam

L’Ama Dablam è una delle montagne più spettacolari e sfidanti dell’Himalaya: una torre gigantesca di ghiaccio e roccia, ripidissima da qualsiasi versante la si osservi. La prima ascensione assoluta alla cima venne realizzata lungo la cresta sudovest nel 1961, dal team di scalatori inglesi e neozelandesi, guidato da Sir Edmund Hillary. Diciotto anni dopo, la vetta nepalese è di nuovo sotto i riflettori dell’alpinismo internazionale: nel 1979 l’americano Jeff Lowe affronta per primo la difficile parete sud, mettendo a segno una delle sue più visionarie ascensioni in solitaria. Uno stile e una mentalità che contrasta decisamente con la salita compiuta nello stesso anno dalla grossa spedizione francese diretta da Raymond Renaud e Yvan Estienne. L’approccio è sicuramente più tradizionale e “pesante”, ma la realizzazione è di gran livello: i quattordici alpinisti transalpini, affiancati da quattro sherpa, raggiungono la cima dopo aver percorso la difficile cresta nord, un itinerario tecnico di 1600 metri di dislivello, caratterizzato da elevate difficoltà sia su ghiaccio che su roccia.

È proprio lì che, nel 1985, si dirige la spedizione italiana organizzata dal CAI di Ballabio, un piccolo paese in provincia di Lecco che può vantare una tradizione alpinistica di tutto rispetto. A guidarla è Casimiro Ferrari, figura leggendaria dell’alpinismo lecchese e in quegli anni punta di diamante del gruppo Ragni.

Ama Dablam © Archivio Ragni di Lecco

La spedizione del 1985

Gli anni 70 appena trascorsi sono stati un’età dell’oro per gli scalatori nati all’ombra delle Grigne: guidati dall’inarrestabile Casimiro e da altri leader carismatici hanno scritto pagine memorabili dell’alpinismo fra la Patagonia e le vette della cordigliera sudamericana. Forti di queste esperienze, a partire dai primi anni Ottanta, hanno cominciato a sognare le grandi vette dell’Asia, una destinazione fino ad allora rimasta sostanzialmente fuori dai radar di una comunità di scalatori di estrazione operaia, fino ad allora carenti delle risorse economiche necessarie per realizzare una costosa impresa himalayana. Le prime esperienze però non sono state positive: sono state organizzate alcune spedizioni dirette ai grandi Ottomila, che purtroppo non sono andate a buon fine, un po’ a causa del maltempo, un po’ per mancanza di esperienza specifica su quel particolare terreno.

Con il suo approccio lungimirante e calcolatore, il Miro si fa promotore della spedizione alla cresta nord dell’Ama Dablam con un triplice obiettivo. In primo luogo intuisce probabilmente che, prima di puntare ad un grande Ottomila, è bene farsi le ossa su un obiettivo più affine allo stile lecchese: una montagna di altezza minore, ma caratterizzata da quel terreno di alta difficoltà tecnica su cui gli scalatori made in Grigna eccellono. Anche la composizione del gruppo è frutto di una visione ben precisa: accanto ai fidati compagni di tante avventure – Giuliano Maresi e Bruno Lombardini – Casimiro affida il ruolo chiave a tre giovani emergenti: Carlo Aldé, Mario Panzeri e Danilo Valsecchi. È un modo per garantire il passaggio di consegne e il cambio generazionale, con i giovani a tirare le lunghezze più difficili, e i “vecchi” al loro fianco, per supportarli con la loro esperienza e spronarli.

Nepal Ama Dablam Cresta nord est © Ama Dablam

Poi c’è anche un altro risvolto nella strategia di Casimiro. Pochi anni prima all’interno del gruppo Ragni si è consumata la frattura che ha portato alla fuoriuscita di dodici fra i più attivi alpinisti dello storico sodalizio, che poi hanno fondato il Gruppo Gamma. Ci sono ruggini e discordie che certo non fanno bene all’ambiente e Casimiro propone la sua soluzione per andare oltre queste sterili divisioni. La filosofia in sostanza è questa: le chiacchiere stanno a zero, l’azione è tutto. Quando si tratta del “fare”, le rivalità e le chiacchiere da bar passano in secondo piano. Proprio per questo, oltre ai giovani Ragni Aldé e Panzeri, non si fa alcun problema nel reclutare anche il Gamma Valsecchi.

Tutta questa astuta strategia rischia di saltare per aria quando l’ufficiale di collegamento guida il gruppo sotto il versante sbagliato della montagna. L’intercessione dei compagni di spedizione riesce a salvare lo sprovveduto dall’ira funesta del Casimiro, e la coesione del gruppo pone rimedio all’inconveniente, riorganizzando rapidamente la logistica per arrivare in tempo utile alla base della cresta nord.

In parete, poi, si rivela appieno la lungimiranza del progetto. I giovani stanno davanti, Panzeri guida con sicurezza e talento. È un dettaglio che oggi possiamo leggere in chiave quasi profetica: proprio lui, qualche anno più tardi, diventerà il primo lecchese a completare la salita dei 14 Ottomila, rigorosamente senza l’uso di bombole d’ossigeno. Intanto, in quel 1985, è parte di una cordata che porta in vetta tutti, giovani e veterani, in un’alchimia rara. Le ultime lunghezze spettano a Casimiro e ai suoi compagni più esperti e il 23 aprile tutto il gruppo si riunisce sulla vetta.

La spedizione all’Ama Dablam è, così, molto più di una salita riuscita. È una metafora del passaggio di consegne, il gesto consapevole di chi ha saputo costruire un’eredità e ora la affida a chi saprà portarla oltre.