Annapurna: la vetta che aprì la corsa agli Ottomila

Con i suoi 8091 metri, l’Annapurna è il primo Ottomila scalato dall'uomo e anche quello statisticamente più pericoloso al mondo. Tra spiritualità, alpinismo e trekking spettacolari, racconta una storia fatta di aria rarefatta.
La parete nord dell'Annapurna I © Wikimedia Commons

L’Annapurna, decima vetta più alta della Terra con i suoi 8091 metri, rappresenta uno degli Ottomila più affascinanti e temuti dell’Himalaya. Si tratta del primo Ottomila ad essere scalato, nel 1950, detiene tuttora un inquietante primato: è la montagna più mortale per gli alpinisti, con un tasso di mortalità superiore al 30%. Ogni anno, infatti, più di un terzo di chi tenta la sua ascesa perde la vita, una statistica che mette in guardia anche i più esperti e richiama l’attenzione sulle difficoltà uniche che questa cima presenta.

Il nome "Annapurna" deriva dalla lingua sanscrita, unendo le parole anna (cibo) e purna (pieno, completo), traducibile come “cibo eterno”. Questo appellativo è un omaggio alla dea induista del nutrimento e dell’abbondanza, che si ritiene abiti nella montagna. La sacralità del massiccio è ben radicata nelle popolazioni locali, le quali dipendono dalle sue numerose sorgenti e torrenti che alimentano le fertili valli circostanti, essenziali per l’agricoltura e la sopravvivenza.

 

La storia dell’Annapurna

L’Annapurna ha una storia alpinistica che accompagna verso la sua prima ascensione. A differenza di altre grandi montagne himalayane come l’Everest, il K2 o il Nanga Parbat, sulle quali si erano succedute numerose spedizioni, nessuno aveva tentato di scalare l’Annapurna prima del 1950. Questo mancato interesse era dovuto principalmente alla chiusura del Nepal agli esploratori e agli alpinisti stranieri.

Fu solo a partire dal 1946, quando le prospettive di una possibile rivoluzione comunista indussero la dinastia Rana - allora al potere in Nepal - a intraprendere un dialogo diplomatico con l’Occidente, che le porte del paese si aprirono gradualmente. Prima furono concessi permessi per scopi scientifici, quindi anche per attività alpinistiche. I primi a beneficiare di questa nuova apertura furono gli alpinisti francesi nel 1950, ai quali venne concesso il permesso di tentare la scalata di due montagne: il Dhaulagiri e l’Annapurna.

Dopo un mese di esplorazioni e valutazioni, il gruppo francese decise di abbandonare il Dhaulagiri per concentrare le risorse e le energie sull’Annapurna, decima montagna più alta del Pianeta. Parliamo di un gruppo di giovani alpinisti dotati e forti, carichi di esperienza alpina ma, come si può immaginare, totalmente scevri di conoscenze dell’altissima quota. A spingerli verso questa sfida erano la volontà di riscattarsi dopo le difficoltà della guerra e il desiderio di alimentare un rinnovato orgoglio nazionale, simile a quanto sarebbe avvenuto in Italia con la prima salita del K2 nel 1954.

La spedizione francese era guidata da Maurice Herzog e composta da alcuni dei migliori alpinisti dell’epoca: Jean Couzy, Marcel Schatz, Louis Lachenal, Gaston Rébuffat e Lionel Terray. A supporto della squadra c’erano anche il medico Jacques Oudot e il cineasta Marcel Ichac, incaricato di documentare l’impresa. Partiti dalla Francia il 30 marzo 1950, trascorsero il primo mese in Nepal esplorando i due massicci. Scelta l’Annapurna, stabilirono il campo base ai piedi della parete nord il 22 maggio.

La spedizione si svolse con una rapidità sorprendente: nonostante la loro totale inesperienza ad altissima quota, in meno di dieci giorni gli alpinisti riuscirono a fissare cinque campi, preparandosi per il tentativo di vetta. Il 3 giugno Maurice Herzog e Louis Lachenal partirono da campo 5, situato a circa 7400 metri, senza bombole di ossigeno. Dopo una dura marcia di otto ore raggiunsero la cima dell’Annapurna I, scrivendo la prima pagina di quella che sarebbe diventata una vera e propria corsa ai 14 Ottomila.

Raggiunto il punto più alto i due dovettero affrontare una discesa drammatica. La poca ossigenazione, la stanchezza e le temperature affrontate avevano lasciato il segno. I due avevano gravi congelamenti a mani e piedi. Al loro arrivo al campo trovarono ad attenderli Gaston Rébuffat e Lionel Terray, saliti per assisterli nella discesa verso valle. Ma non fu facile, Herzog e Lachenal erano stanchi, quasi sfiniti, dovevano fermarsi. Così decisero di bivaccare all’addiaccio. Con loro c’erano sempre Rébuffat e Terray, che avevano dimenticato gli occhiali da ghiaccio. Avrebbero pagato anche loro la discesa, ma senza conseguenze gravi: qualche giorno di cura e l’oftalmia sarebbe passata. Herzog e Lachenal ne avrebbero avuto invece per mesi, perdendo le dita di mani e piedi. Al loro ritorno in patria furono accolti come eroi.

La parete sud dell'Annapurna I © Wikimedia Commons

La prima salita invernale

Nell’inverno 1986-1987, una spedizione polacca guidata da Jerzy Kukuczka, uno degli himalaysti più forti di sempre con già tre prime invernali su montagne di ottomila metri, di cui due in prima assoluta, si portò ai piedi dell’Annapurna con l’obiettivo di compiere la prima ascensione invernale di questa imponente montagna.

La squadra era composta, oltre che da Kukuczka, da alpinisti di grande fama come Artur Hajzer, Wanda Rutkiewicz e Krysztof Wielicki. Per la salita venne scelta la storica via tracciata dai primi salitori nel 1950, percorso che rimaneva uno dei più sicuri e percorribili anche con le condizioni estreme dell’inverno.

Giunti al campo base a metà gennaio, gli alpinisti sfruttarono una favorevole finestra meteorologica per iniziare i lavori sulla montagna. Il 31 gennaio raggiunsero il campo 4, situato a 6800 metri di quota. Da lì Kukuczka e Hajzer proseguirono verso il campo 5, posizionato a 7400 metri.

Il 3 febbraio partì il loro attacco di vetta: alle 16 del pomeriggio, con il buio imminente, Jerzy Kukuczka e Artur Hajzer raggiunsero il punto più alto dell’Annapurna. Con il sole prossimo al tramonto non ebbero il tempo di godersi realmente la il momento, in quel momento l’unico pensiero era rivolto alla discesa. Dovevano raggiungere la tenda dell’ultimo campo il più in fretta possibile. Alla fine ci riuscirono solo a notte ormai fatta. Per Kukuczka si trattò della terza prima invernale e anche del suo tredicesimo Ottomila.

 

Geografia dell’Annapurna

È un errore considerare l’Annapurna come una montagna isolata. In realtà, il termine “Annapurna” identifica un vasto e imponente massiccio montuoso, che oggi fa parte dell’Annapurna Conservation Area, un’area protetta di 7629 chilometri quadrati, la prima del genere istituita in Nepal.

Questo massiccio è delimitato a nord e a est dal fiume Marshyangdi, a sud dalla valle di Pokhara e a ovest dalla gola del Kali Gandaki, configurandosi come un sistema montuoso lungo circa 55 chilometri. All’interno di questo complesso territoriale si trova una sola vetta che supera gli ottomila metri di altezza: l’Annapurna I, con i suoi 8091 metri.

Oltre all’Annapurna I, il massiccio comprende altre importanti cime di grande rilievo: tredici montagne che superano i 7000 metri e sedici che raggiungono o superano i 6000 metri. Le cime principali, in ordine di altezza dopo l’Annapurna I, sono Annapurna II (7937 metri), Annapurna III (7555 metri), Annapurna IV (7525 metri), Gangapurna (7455 metri) e Annapurna Sud (7219 metri).

L'Annapurna e il suo campo base © Facebook Mingma G

Salite significative

La principale via di salita al punto più alto del massiccio dell’Annapurna è ancora quella tracciata dai primi alpinisti nel 1950, che si sviluppa sulla parete nord della montagna. Tuttavia, vent’anni più tardi, sul versante opposto, viene aperta una nuova via che si distingue per la sua difficoltà e per l’approccio tecnico ricercato dagli alpinisti. A guidare quella spedizione, nel 1970, è Chris Bonington, accompagnato da Don Whillans, Dougal Haston e Ian Clough. Nonostante disponessero di bombole di ossigeno per il tentativo di vetta, queste non sono state utilizzate. La salita è stata ampiamente raccontata e celebrata sia in Gran Bretagna sia a livello internazionale, soprattutto per le difficoltà tecniche superate e per il nuovo modo di intendere l’alpinismo ad altissima quota. La vetta viene raggiunta da Whillans e Haston, mentre la spedizione è segnata dalla tragica scomparsa di Ian Clough.

Negli anni successivi l’Annapurna ha visto l’apertura di numerose altre vie alpinistiche. Nel 1974, il 29 aprile, gli spagnoli José Manuel Anglada, Emilio Civís e Jorge Pons aprono la cosiddetta “via degli Spagnoli” sul versante nord. Tre anni dopo, nell’autunno del 1977, una spedizione olandese realizza una variante del percorso dei primi salitori, nota come “via degli Olandesi”. Nel 1981, il 23 maggio, i polacchi Maciej Berbeka e Bogusław Probulski, appartenenti a una spedizione del Club Alpino di Zakopane, raggiungono la vetta passando dalla parete sud lungo una nuova via chiamata “Zakopiańczyków”. Nello stesso anno, in autunno, una spedizione giapponese apre un nuovo percorso sempre sulla parete sud, posizionato tra la via inglese e quella polacca. Nel 1985 Reinhold Messner e Hans Kammerlander salgono per la parete ovest-nordovest, ancora inviolata fino ad allora. Infine, nel 2013, lo svizzero Ueli Steck completa la “via Lafaille”, un percorso tentato già nel 1992 da Jean-Christophe Lafaille e Pierre Beghin, impiegando 28 ore tra salita e discesa.

Tra le salite degne di nota va ricordata quella del 15 ottobre 1978, quando Vera Komarkova e Irene Miller, partecipanti alla spedizione American Women’s Himalayan Expedition, diventano le prime donne a raggiungere la vetta dell’Annapurna I. Nel 1984, i catalani Enric Lucas e Nil Bohigas salgono in stile alpino la parete sud, restando sulla montagna per otto giorni. Sempre nel 1984, una spedizione svizzera raggiunge la vetta percorrendo la cresta est, ancora inviolata. In cima arrivano Erhard Loretan e Norbert Joos, che poi ridiscendono per la via degli Olandesi. Nel 1987, una spedizione giapponese segna la prima invernale della “via dei Britannici” con Noboru Yamada, Yasuhira Saito, Teruo Saegusa e Toshiyuki Kobayashi.

Nel 1996 lo svizzero André Georges compie la prima salita solitaria dell’Annapurna, raggiungendo la vetta attraverso la via dei Francesi in sole 22 ore; due settimane prima aveva realizzato un’impresa simile sul Dhaulagiri. Infine, nel 2007, lo sloveno Tomaž Humar realizza la prima salita solitaria lungo la parete sud.

L'Annapurna © Wikimedia Commons

Raggiungere l’Annapurna

Il massiccio dell’Annapurna è probabilmente il più celebre nel mondo del trekking d’alta quota. Ogni anno, migliaia di appassionati si avventurano sui suoi sentieri per ammirare le imponenti pareti verticali che caratterizzano questa straordinaria catena montuosa. Tra i percorsi più affascinanti e frequentati spiccano il Circuito dell’Annapurna e il trekking al Santuario dell’Annapurna, che include anche la visita al campo base della montagna.

Per vivere queste esperienze è necessario arrivare a Kathmandu con un volo aereo internazionale. Da qui, il viaggio prosegue verso la cittadina di Pokhara, punto di partenza delle due lunghe escursioni. Entrambi gli itinerari sono facilmente accessibili e si snodano attraverso paesaggi montani, pittoreschi villaggi e dolci colline. Per poter accedere a quest’area è obbligatorio acquistare un permesso di trekking, il cui costo è contenuto e accessibile. Va però sottolineato che chi desiderasse invece scalare le cime dell’Annapurna deve essere in possesso di un permesso di scalata, come per tutte le montagne sopra gli ottomila metri.

Organizzare un trekking in questa regione del Nepal è relativamente semplice, soprattutto per chi è abituato a viaggiare in autonomia. In alternativa, è possibile affidarsi alle numerose e qualificate agenzie locali o a quelle italiane specializzate in viaggi d’avventura, che offrono supporto e organizzazione per un’esperienza più agevole e sicura.