Passo Gardena © PixabayC’è qualcosa che accade lassù, in montagna.
È un fenomeno sottile, quasi impercettibile ma reale. È un cambiamento di prospettiva, di ritmo, di respiro. Accade quando il sole sfiora le cime più alte con il suo chiarore nascente, quando il vento passa attraverso la stretta valle, quando la neve scricchiola sotto i nostri passi e ogni suono sembra un richiamo antico come una riconnessione con qualcosa di ancestrale. Accade quando, nel silenzio rarefatto dell’alta quota, guardare in basso ridimensiona tanto quanto guardare in alto.
In quei momenti la natura ci circonda completamente e ci invita - o forse ci costringe - a guardarla davvero. Proviamo sensazioni difficili da descrivere come libertà e timore, ispirazione e rispetto, solitudine e appartenenza; sentiamo piccoli, fragili, eppure incredibilmente vivi e quando scendiamo a valle, quella sensazione resta, accompagnandoci come una nostalgia. Sembra quasi che una volta entrati nel cuore della montagna, una parte di noi non volesse più uscirne.
Molti di noi conoscono bene questa dipendenza. Quando lasciamo le montagne, desideriamo ardentemente tornare, non per il gusto della fatica o della conquista ma per ritrovare quell’equilibrio fragile e potente che solo lassù sembra possibile.
A volte ci convinciamo che sia una scelta, una passione o un hobby, ma, se siamo onesti, sappiamo che non è proprio così. È come se la montagna, di tanto in tanto, ci chiamasse a sé non per orgoglio o conquista, ma per offrirsi come luogo di liberazione, di riconciliazione o di verità.
Esiste una parola che racchiude perfettamente tutto questo: Bergtagen e l’ho incontrata per la prima volta in un libro di fotografie di montagne del mondo, comprato per caso in un mercatino dell’usato a Stoccolma. Il titolo del libro, Bergtagen, mi rapì ancor prima di aprirlo, per la forza evocativa di quella parola e per le immagini meravigliose al suo interno.
È una parola antica e misteriosa, intrisa di superstizione e poesia. Letteralmente significa “rapito nella o dalla montagna” e affonda le sue radici nella mitologia scandinava, nei racconti popolari che narrano di troll e spiriti della montagna che attiravano gli esseri umani nelle profondità dei monti, dove li trattenevano per sempre. Chi riusciva a tornare, dicono le leggende, era profondamente cambiato, non più lo stesso, quasi irriconoscibile, come se l’incontro con la montagna avesse cancellato e riscritto la sua identità.
Quella del bergtagen era una credenza diffusa nel folklore nordico medievale in cui la montagna, come entità viva e magica era capace di ammaliare e catturare l’essere umano che osava avvicinarsi troppo e con poca cautela. Un richiamo tanto pericoloso quanto irresistibile, un po' il paradigma dell’idea di chi sale in montagna, che torna sempre diverso da come è partito.
Nel tempo però, il significato del termine si è trasformato. Oggi bergtagen non evoca più troll o creature misteriose ma un diverso tipo di rapimento: quello dello stupore, dell’innamoramento, dell’ossessione per la bellezza e la purezza della natura.
Oggi, “essere bergtagen” significa lasciarsi catturare da un paesaggio, dalla natura, sentirsi parte di essa fino a smarrire la distinzione tra sé e il mondo; è un rapimento dolce e necessario, che nasce dal desiderio di libertà ma anche dal bisogno di riconciliazione. Quella sensazione che solamente la montagna sa donare: sentirsi smisuratamente piccoli e allo stesso tempo parte di qualcosa di molto più grande.
Con il tempo abbiamo imparato che la natura e la montagna come parte di essa, non ci appartiene, non possiamo piegarla al nostro volere. Essere bergtagen significa accettare le condizioni difficili come il freddo, la fatica, la solitudine, l’incertezza del tempo.
Significa continuare a salire anche quando tutto sembra fermarsi, perché dove l’aria si fa sottile e il passo si fa lento, c’è sempre qualcosa che ci attende.
Come i troll e le antiche creature che, secondo le leggende nordiche, rapivano l’animo di chi osava avvicinarsi alle montagne, oggi queste ci catturano senza creature misteriose che le abitano. Lo fanno spogliandoci di tutto ciò che è superfluo, restituendoci la misura di ciò che siamo davvero.
Un antico detto dice che “le montagne sono il luogo in cui si va per sognare” e forse è vero ma probabilmente è vero anche il contrario; sono le montagne a sognarci, a volerci e quindi ci rapiscono.
Ogni volta che rispondiamo a quel richiamo, ogni volta che torniamo sui sentieri, accade qualcosa: un piccolo spostamento dell’animo, una piccola nuova scoperta, un cambiamento. Quando scendiamo a valle, portiamo con noi il ricordo di quel rapimento, lo sentiamo con nostalgia, guardiamo quella montagna con un desiderio di voler tornare lì su, un frammento che continua ad abitare dentro di noi.
Forse è proprio questo, in fondo, il significato più profondo del bergtagen: lasciarsi rapire dalla montagna per ritrovare, in quegli spazi e quei silenzi, la parte più vera e libera di noi stessi.