Cazzanelli e compagni in vetta. Foto Archivio Francois Cazzanelli
Durante la salita. Foto di Damiano Levati
La traccia della via. Foto di Damiano Levati
Durante la salita. Foto di Damiano Levati
Durante la salita. Foto di Damiano LevatiA nord di Kathmandu, nella remota valle del Langtang, s’innalza il Kimshung, una cima che per anni è rimasta inviolata. Per François Cazzanelli quella montagna non era soltanto un obiettivo alpinistico, ma una questione personale. Una lunga rincorsa che cominciò già nel 2015, quando insieme a Giampaolo Corona intraprese il primo tentativo di scalata, interrotto dal devastante terremoto che colpì il Nepal.
Cazzanelli sarebbe ritornato, sempre con Corona, l'anno successivo. Fu un'esperienza drammatica questa, dove al secondo tentativo di salita Cazzanelli si ritrovò gravemente ferito a un braccio, travolto da una scarica di pietre. Nonostante la gravità della situazione ne uscì senza conseguenze particolari. Ma quell'evento avrebbe potuto rappresentare la fine della sua carriera alpinistica.
Per anni il Kimshung è stato un richiamo che François ha cercato di allontanare dalla propria testa, dedicandosi ad altri progetti, altrettanto impegnativi e stimolanti. Però c'era sempre. Era come se non sparisse mai del tutto. Un pensiero latente che non gli dava pace e che in qualche modo gli ricordava che c'era ancora un tassello mancante per chiudere davvero il cerchio.
Il 20 ottobre 2025, insieme al compagno di cordata Giuseppe Vidoni e agli austriaci Benjamin Zörer e Lucas Waldner, ha aperto una nuova via battezzata “Destiny” sulla parete nord-est del Kimshung, segnando così la prima salita assoluta della vetta e chiudendo un cerchio aperto da dieci anni.
Questa salita è un capitolo che parla di amicizia, fiducia, etica alpinistica e della capacità di trasformare le difficoltà in punto di forza.
François, possiamo dirlo: hai chiuso un cerchio…
Sì. Sono molto contento, e non nascondo che devo ancora realizzare quello che è stato questo grande progetto. Ci sono voluti tanti anni, tante disavventure, alcune molto belle, altre difficili da superare. È la conclusione di un grande cerchio. Dopo tanti anni, il Kimshung ci ha voluto fare un grandissimo regalo, con delle condizioni perfette.
Che condizioni avete trovato nei giorni della salita?
A inizio ottobre c'è stata una grande alluvione in Nepal, a seguito di una violenta perturbazione. Purtroppo ci sono stati anche dei morti. Dall’altra parte però, per noi alpinisti questa perturbazione è stata una manna dal cielo, perché pareti con quelle condizioni non si vedevano da anni.
Quando avete capito che era il momento giusto per tentare la salita?
Quando poi è diventato bello, abbiamo fatto un acclimatamento buono e veloce. Poi è arrivata una finestra, a cavallo del 19-20 ottobre, una delle più belle finestre che io abbia mai visto in Himalaya: di notte temperature fredde ma non troppo, assenza totale di vento, di giorno temperature miti. Non è stato un caso che negli stessi giorni molte cordate siano riuscite a portare a casa i loro obiettivi.
In cima siete arrivati tu e Vidoni, insieme a due compagni di una spedizione austriaca…
Sì, abbiamo conosciuto questi ragazzi austriaci, Benjamin e Lucas. Anche loro erano lì con lo stesso obiettivo, così ci siamo consultati su cosa fare: loro sono molto giovani, io e Bepi più esperti e avremmo potuto passargli il nostro know-how. Sapevamo che come cordata potevamo funzionare, eravamo curiosi di confrontarci con loro. Così abbiamo deciso di fare squadra.
Il risultato l'ha confermato…
Si, in parete ci siamo trovati benissimo. L’avvicinamento, fatto di notte, è stato un po’ freddo: abbiamo dovuto battere un po’ di traccia per arrivare vicino alla parete. Da lì, le condizioni rispetto allo scorso anno (Cazzanelli fa riferimento a un tentativo portato avanti nell'autunno 2024, conclusosi senza vetta, nda) erano splendide. Siamo riusciti a salire velocemente, dandoci il cambio.
Ci sono stati momenti critici durante la salita?
L’ultima parte è stata più impegnativa del previsto: un tratto di neve molto ripida. La neve non era male, ma nemmeno il top. Sbagliare lì voleva dire non fare ritorno a casa: non c’era modo di assicurare il compagno, né di assicurarsi.
Com’è stato arrivare in vetta?
In vetta ho pianto. Sono arrivato su per primo, e ho pianto tanto. Poi è arrivato Bepi, e ci siamo abbracciati. Poi abbiamo avuto poco tempo: fatte le chiamate di rito, siamo scesi di corsa, perché eravamo solo a metà dell’avventura.
Chi hai chiamato?
Ho chiamato Alessia, la mia compagna, e Barbara, la compagna di Marco Camandona. Poi, con l’InReach, ho sentito mio cugino Stefano, che era impegnato proprio con Camandona in un’altra salita lì vicino.
Ti sei emozionato anche pensando a tutto il percorso che ti ha portato fin lì?
Sì, assolutamente. In quei minuti mi sono passati davanti dieci anni di vita.
Allora torniamo un attimo indietro: nove anni fa cosa è successo?
In realtà tutto è cominciato dieci anni fa con Giampaolo Corona, con cui ci eravamo conosciuti al Kangchenjunga un anno prima. Si era instaurato un bel rapporto un feeling particolare e volevamo scalare qualcosa di più tecnico, in modo veloce. A darci l'idea era stato Con Oscar Piazza, lui conosceva bene la valle del Langtang.
Poi, mentre eravamo sul volo a inizio viaggio, c’è stato il terremoto del Nepal e le priorità sono cambiate. Ci siamo subito resi disponibili per aiutare nei soccorsi. E a noi è toccato il recupero di Oscar, deceduto nella valle di Langtang.
Poi?
Per quell'anno è finita così. L’anno successivo abbiamo deciso di provarci nuovamente, facendo un bel tentativo in cui siamo arrivati oltre i 6000 metri. Con noi al primo tentativo c’era Emrik Favre. Poi lui è rientrato, e io e Giampaolo ci abbiamo riprovato. Ma non ci siamo resi conto che il forte vento, che aveva spazzato la parete per una decina di giorni, l’aveva seccata talmente tanto da renderla instabile. Mentre salivamo una scarica di sassi mi ha travolto, ferendomi gravemente al braccio. Se sono sceso è grazie a Corona.
Mi ripeto: e poi?
Negli anni successivi io non volevo più tornare, mentre Corona sì. Poi, quando io volevo tornare, Corona aveva già avuto un grave incidente e non poteva più farlo.
Se sono ripartito per questo progetto è grazie ai miei amici, che mi hanno dato la forza di rifarlo. Se ce l’ho fatta, è soprattutto grazie a loro e al mio compagno di cordata, Bepi Vidoni, uno dei migliori alpinisti che abbiamo oggi in Italia, nonostante sia poco conosciuto.
Vuoi aggiungere qualcosa?
Mi piacerebbe menzionare tutti i miei compagni di spedizione degli ultimi anni su questa montagna: Stefano Stradelli, Marco Camandona, Ethienne Janin, Roger Bovard, Emrik Favre, Francesco Ratti e Jerome Perruquet. È grazie a loro se ho in questi due anni ho deciso di tornare a tentare questo obiettivo. E vorrei anche menzionare il bel tentativo portato avanti da Stefano, Marco ed Ethienne sull'inviolata cresta nord-est del Yansa Tsenji. Hanno voluto puntare in alto, sapendo che le possibilità di successo erano poche, ma ci hanno creduto e provato fino in fondo. E ancora più complimenti a Marco Camandona che, dopo i 14 Ottomila, ha trovato la voglia di tornare in spedizione, mettersi in gioco e godere della montagna. Soprattutto in questo periodo, in cui il mondo dell'himalaysmo deve riprendersi da un momento grigio, persone come lui possono aiutare a raccontare una storia positiva, che davvero può stimolare le nuove generazioni attraverso ideali e principi positivi.
E adesso?
Non lo so. Nel mese di novembre avrò sicuramente del tempo per pensare. Mi devo infatti sottoporre a una semplice operazione al ginocchio e al dito di una mano che mi lascerà fermo per qualche tempo.
L’anno prossimo vorrei tornare in alta quota: sul tipo di progetto mi prendo del tempo per riflettere. Di certo voglio continuare sulla strada che abbiamo tracciato, sia a casa che sulle montagne del mondo.