Certificati di vetta sugli Ottomila, come funziona?

Raggiungere la vetta di un Ottomila non basta? serve il certificato ufficiale? Scopriamo cosa sono i certificati di vetta e come si ottengono.
In cima all'Everest © Facebook Inoxtag

Raggiungere una vetta sopra gli ottomila metri non è solo una prestazione sportiva: è un titolo ufficiale, spesso legato a premi, sponsorizzazioni e riconoscimenti internazionali. In Nepal, dove si trovano 8 dei 14 Ottomila, questo titolo viene formalizzato da un “summit certificate” – certificato di vetta –, rilasciato dallo Stato. Abbiamo avuto modo di parlarne anche ieri, all'interno dell'articolo di dedicato ai dubbi sui 14 Ottomila di Marco Confortola.

Ma come si ottiene? Quali controlli esistono? E cosa succede se un alpinista non ha prove certe della sua vetta?

 

Come si ottiene il certificato di vetta?

Il governo nepalese richiede che gli alpinisti, una volta rientrati dalla spedizione, si rechino presso il Department of Mountaineering (ufficio del Ministero del Turismo) per richiedere il certificato di vetta. Per la richieste è necessario fare un debriefing con i funzionari (che verificano i dati della spedizione); consegnare prove fotografiche o video; dimostrare di aver riportato indietro i propri rifiuti. Solo a fronte di queste verifiche il certificato è rilasciato.
Se non si dovessero avere né foto, né video a testimoniare la vetta, nel corso degli anni sono stati rilasciati certificati di vetta sulla base di altre dichiarazioni. Un esempio è quella del capo spedizione o della guida certificata locale con cui si è raggiunta la vetta, ma anche il rapporto dell’ufficiale di collegamento della spedizione che deve compilare una relazione, nella quale può confermare il raggiungimento della vetta da parte dell’alpinista. Altre dichiarazioni che possono essere utili sono quelle degli altri alpinisti o membri della spedizione che possono fornire testimonianze, scritte, riguardo il raggiungimento del punto più alto. In quest’ultimo caso meglio avere più di una dichiarazione. Infine anche le tracce GPS sono dati utili a far validare una cima di settemila o ottomila metri, anche se non sono ufficialmente richiesti.

Il certificato non è automatico. Se mancano prove sufficienti o se emergono dubbi, per esempio relazioni di salita incomplete o foto non chiare, il dipartimento del turismo può rifiutare il rilascio. È accaduto più volte sul Manaslu (8163 m), dove molti alpinisti si sono fermati a una sella innevata poco sotto la vera vetta, anziché proseguire nell’ultimo tratto della cresta. Per anni hanno comunque ricevuto il certificato, ma oggi le regole sono più severe.

 

A cosa serve il certificato?

Oltre a confermare ufficialmente il raggiungimento di una vetta, soprattutto quelle di ottomila metri, l'avere il certificato di vetta può facilitare sponsorizzazioni da parte di aziende e brand. Non esistono ovviamente dichiarazioni ufficiali che affermano esplicitamente che il certificato favorisca le sponsorizzazioni, il suo è un ruolo indiretto che agevola però l’accesso a spedizioni prestigiose. La certificazione di alcune vette serve, a esempio, per poter avere i permessi di scalata di altre cime (come se alcune cime fossero un test utile a garantire un certo livello di capacità). E, oltre a questo, sono un utile strumento di comunicazione: offrono credibilità pubblica e professionale. In pratica, è una sorta di “passaporto riconosciuto”.

 

Vale anche per le guide locali e portatori d'alta quota?

Fino al 2017 il Governo del Nepal, basandosi sul Mountaineering Expedition Regulation (in vigore dal 2002), escludeva le guide locali e i portatori d'alta quota dal rilascio del certificato di vetta. La norma stabiliva che il documento fosse riservato solo agli "expedition members" – ovvero i membri paganti della spedizione – che avevano ottenuto il permesso di salita escludendo così chi era considerato “semplice operatore locale” anche se aveva raggiunto la vetta. Una gestione che ha scatenato forti proteste da parte di guide e portatori d'alta quota, culminate in una manifestazione al Campo Base dell’Everest nel 2017.
In risposta alle proteste e alle pressioni della comunità alpinistica locale, nel maggio 2017 il Governo nepalese annunciò l'intenzione di riammendare la normativa per riconoscere ufficialmente gli Sherpa come membri delle spedizioni e consentire loro di ottenere il certificato.

L’anno successivo, nel febbraio 2018, il Dipartimento del Turismo pubblicò un emendamento al regolamento, riconoscendo circa 500 tra sirdar, guide e lavoratori d’alta quota come soggetti legittimati a richiedere il certificato di vetta qualora avessero raggiunto la cima.

 

La zona grigia

La salita di un Ottomila non è sempre un fatto netto. Esiste infatti un’ambigua “zona grigia” che riguarda sia le cosiddette “free zone”, sia l’effettivo punto in cui un alpinista può dichiarare con certezza di aver “raggiunto la vetta”. 

Il termine “free zone” indica cime che si trovano in una posizione incerta rispetto alla vetta principale, zone di alta quota che il governo nepalese ha iniziato a classificare come “Ottomila ufficiali” nel proprio registro nazionale. Questo nonostante l’UIAA (Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche) non abbia ancora approvato alcuna modifica all’elenco dei 14 Ottomila riconosciuti, sottolineando l’assenza di criteri scientifici condivisi per stabilire cosa renda una vetta “indipendente”.

A complicare ulteriormente il panorama è la questione della vera vetta. Molte montagne himalayane hanno creste che possono trarre in inganno l’alpinista, portandolo a fermarsi pochi metri sotto il punto culminante. È accaduto su vette come il Manaslu, il Dhaulagiri o l’Annapurna, dove numerose spedizioni hanno inconsapevolmente mancato la cima vera, come poi rivelato da immagini satellitari, GPS e droni.
Per questo, più spesso di quanto si possa pensare, nei debriefing con il Dipartimento del Turismo del Nepal o della China Tibet Mountaineering Association, l’assenza di un protocollo standardizzato e verifiche scientifiche rigide fa sì che vengano talvolta rilasciati certificati anche in assenza di prove inequivocabili. Soprattutto quando una salita è stata effettuata in condizioni meteo avverse o con il dubbio se l'alpinista sia effettivamente sul punto più alto o comunque in quell'area, o in una zona molto simile.

Così, tra vette ufficiali e “free zone”, tra cime vere e “pre‑summit” inconsapevoli, anche la domanda più semplice – “sei arrivato in cima?” – diventa oggi una questione sorprendentemente complessa.