Giusto Gervasutti
Cervino da Cervinia - Foto Mariapaola - Wikimedia Commons, CC BY-SA 3.0L’impresa più nota di Giusto Gervasutti non è la gelida parete nord ovest dell’Ailefroide, e nemmeno uno dei suoi tanti capolavori sul Monte Bianco e nel Delfinato. La scalata che lo rende famoso è l’ascensione solitaria invernale di una via abbastanza facile, assai celebrata e molto ripetuta: la cresta del Leone sul Cervino. Il fascino della montagna simbolo unito alla data magica del 24 dicembre fa breccia sui giornali e nelle case degli italiani. Gervasutti è il sogno in regalo per la notte di Natale.
Il 23 dicembre 1936 Gervasutti e Pession salgono sulla funivia di Plan Maison. Bella, cromata, nuovissima. Alle undici del mattino Giusto si carica lo zaino sulle spalle, ringrazia il portatore e continua da solo. Il Cervino è enorme, un po’ opprimente. Non una nuvola ad alleggerirlo. Lui sale come un orologio: Colle del Leone alle 13,45, spuntino di tre quarti d’ora, capanna Luigi Amedeo alle 15,40. Riempie il crepuscolo con i gesti semplici degli alpinisti: alleggerire lo zaino, riempire la borraccia con acqua di fusione, controllare i ramponi. Si scalda qualcosa per cena e alle 19,30 s’infila sotto un mucchio di coperte. Dorme dieci ore di fila, sono lunghe le notti di dicembre.
Il 24 dicembre, la vigilia di Natale, nel rifugio il termometro segna nove gradi sotto lo zero. Aspetta che spunti il sole, poi esce e va. Arrampica guardingo sui primi passaggi della cresta, impugnando le corde fisse con i guanti di pelle. Le mani slittano e congelano, le batte insieme e riparte. Quando arriva al passaggio del Linceul pensa al povero Amilcare Cretier che è precipitato da quelle parti. “Tradito dalla neve”, gli dice la memoria, la stessa poltiglia menzognera che ora borda il nevaio splendente di polvere. La Gran Corda lo rimette al mondo e l’ombra dell’ovest lo ributta nell’inverno. Ora la via del Leone affronta lo slancio vertiginoso del Pic Tyndall, la spalla italiana del Cervino: “Procedo come un equilibrista sulla fune, librato tra due abissi di oltre mille metri, senza nessuna sicurezza. Quando la pendenza diminuisce e la cresta diventa quasi orizzontale dimentico ogni dignità stilistica e mi metto a cavalcioni”.
Le condizioni della montagna sono cattive, la neve non ha fatto presa. È come scalare il pandoro spolverato con lo zucchero a velo. Il sole sta già calando verso il Monte Bianco e la cima vera è ancora separata dalla breccia del Col Félicité. Lontanissima. Il friulano fa qualche passo indietro, passi di rinuncia, poi pensa “caro mio, preferisci scendere con la luna o rifare il funambolo domattina?”. Meglio andare su. Nuovo dietrofront. Sfodera la piccozza e si batte da par suo, raschiando ghiacci e ripulendo appigli sulla testa del Cervino. Nel primo pomeriggio raggiunge la scala Jordan: “Ho una brutta sorpresa. La placca che sovrasta la scala è coperta di neve e sia il piuolo di attacco che la corda sono completamente sotterrati. Allora, sospeso completamente nel vuoto inizio un lavoro interessante: sfilo la piccozza dal sacco e incomincio a rompere il ghiaccio che trattiene la corda… Finisco con le mani gelate. Mi arresto un momento per rimetterle in attività, poi quasi di corsa per la cresta più facile raggiungo la vetta. Sono le 14,10. Un mondo immenso è sotto di me”.