Cima Falkner al tramonto
Cima Falkner
Montagne del Brenta
Cima Falkner alle ore 21.11
Cima Falkner alle ore 20.12
Cima Falkner
Cima Falkner
Cima Falkner
Cima Falkner
Cima Falkner
Cima FalknerLa notte tra sabato 26 e domenica 27 luglio ci sono stati i primi crolli sul cima Falkner, nelle Dolomiti del Brenta. Nella serata del primo agosto ulteriori cedimenti hanno cambiato la forma della cima, che si è divisa a metà. Per capire il fenomeno, abbiamo chiesto spiegazioni a Marco Giardino, geologo, professore presso il dipartimento di Scienze della Terra all'Università di Torino e vice-presidente del Comitato Glaciologico italiano. L'abbiamo raggiunto al rifugio Gastaldi, in Alta Val d'Ala, tra le Alpi Graie, dove inizia oggi la summer school “Geodiversità a rischio nel contesto dei cambiamenti climatici. Il suo ruolo cruciale negli ecosistemi terrestri", organizzata nell'ambito del progetto Cai Rifugi Sentinella del clima e dell'ambiente, in cui Marco Giardino è docente.
Buonasera Marco, ci spieghi cos'è successo alla cima Falkner?
Le cime delle Dolomiti che si trovano a quote elevate, come la Falkner, attorno ai 3000 m, esposte a nord hanno uno strato di ghiaccio residuo che avvolge la roccia – il permafrost – e la mantiene ferma. Bisogna anche tenere presente che le rocce dolomitiche di queste montagne sono attraversate da fratture, dovute a motivi strutturali, legati alla loro formazione; il ghiaccio che si insinua in questi spazi le mantiene legate e stabili. Le temperature elevate degli ultimi anni hanno degradato lo strato superficiale di permafrost, rendendo la roccia più instabile e soggetta a crolli.
Come nel caso del ghiacciaio Birch, in Svizzera?
Più o meno. In quel caso il permafrost ha degradato la roccia che è caduta sul ghiacciaio che si è mobilizzato, generando una valanga di ghiaccio e roccia. Questa è più pericolosa dei semplici crolli di roccia perché si propaga a grande distanza dal punto in cui si origina. In Svizzera gli esperti seguono da tempo questo fenomeno: quando hanno visto dei segnali premonitori di un'instabilità, hanno allertato i servizi tecnici per monitorare e, quando hanno capito che il ghiacciaio sarebbe crollato, hanno evacuato la zona sottostante.
Il giorno del secondo crollo, il primo agosto, si sono alternate varie condizioni meteorologiche: sole, pioggia, grandine, vento, neve. Questo può aver influenzato il crollo?
La variabilità meteorologica può innescare il fenomeno. Immagina un ammasso roccioso nel quale c'è il permafrost: a causa delle alte temperature, il ghiaccio può destabilizzarsi; una parte diventa acqua, se ci piove sopra, la fusione scende verso il basso e aumenta l'erosione. In questo modo, la massa rocciosa, già di per sè predisposta all'instabilità, per i motivi accennati prima, diventa ancora più precaria. Purtroppo stiamo vivendo un momento contraddistinto da questa grande energia nell'atmosfera che si manifesta sottoforma di precipitazioni e onde di caloro, andando ad intaccare le zone più sensibili.
Quindi ci sono due concause del crollo: una strutturale e una dovuta al riscaldamento?
Sì. Come geologi, sappiamo dove sono queste discontinuità strutturali, sappiamo descrivere l'ammasso roccioso, dove si trova il permafrost. E come geomorfologi sappiamo quali tra queste pareti è più sensibile alle variazioni in aumento delle temperature. Quindi, da un lato, possiamo ricercare questi punti e monitorarli; dall'altro, dobbiamo provare a cambiare il nostro modello di sviluppo per contrastare il cambiamento climatico.
Quindi vi aspettavate il crollo della cima Falkner?
No, perché per nostra sfortuna quell'area non è sottoposta ad un controllo molto attento rispetto all'instabilità, come accade in Svizzera, per esempio. Però i geologi della provincia di Trento e i geologi dell'Alto Adige hanno fatto un censimento molto attento delle frane e possono indicare zone in cui ci sia una maggiore o minore predisposizione ai crolli a causa delle particolari strutture rocciose. Da questo punto di vista, bisogna sostenere la ricerca, i progetti di monitoraggio.
Come avviene il monitoraggio?
Innanzitutto si usano dei termometri per vedere le caratteristiche delle temperature; poi dei sensori nella roccia a varie profondità per vedere come si propagano le onde di calore. Sulla base di questi dati, sappiamo come reagisce la montagna. Queste installazioni vengono fatte in zone che, sulla base di precedenti studi, sono state segnalate come instabili, quindi si va ad approfondire la situazione. Il monitoraggio poi può essere anche satellitare o aereo oppure con uno da terra, con degli apparecchi laser che misurano gli spostamenti minimi della roccia. Questo per verificare lo spostamento millimetrico e capire se ci sono stati cambiamenti repentini nella velocità di deformazione del versante. In caso positivo, si allertano tutte le popolazioni e le comunità che vivono sotto quella montagna di un possibile rischio di crollo. Si tratta di un segno premonitore di un cedimento.
Dove vengono fatti questi monitoraggi in Italia?
Il caso più eclatante è in Val d'Aosta: vengono monitorati i versanti della Val Veny, della Val Ferret. Si tratta di esempi positivi.
Per quanto riguarda la cima Falkner, possiamo aspettarci crolli nei prossimi giorni?
Penso che crolli di tipo minore saranno sicuramente possibili, anzi li hanno li hanno anche previsti i geologi locali. Come vice-presidente del Comitato Glaciologico italiano, il presidente dell'Ordine dei Geologi di Trento mi ha informato di questo caso della cima Falkner, indicandomi la possibilità di altri crolli di diversa entità. Ha anche allertato di delimitare le aree a rischio nei sentieri sottostanti. Non dobbiamo però essere spaventati e non andare più in montagna, perché non è uguale ovunque. Ci sono dei luoghi che hanno maggiore predisposizione all'instabilità, ma altri luoghi si possono frequentare tranquillamente. Noi conosciamo molto bene le caratteristiche dell'instabilità, i modelli di distribuzione del permafrost; incrociando questi ultimi con le caratteristiche della roccia, siamo confidenti che piano piano riusciremo ad individuare le zone più sensibili. Il fenomeno si può gestire investendo, come hanno fatto gli svizzeri, sull'uso di queste conoscenze per il riconoscimento precoce di questi segni premonitori dell'instabilità. È quello che proviamo ad insegnare anche ai nostri studenti durante questa summer school: bisogna aumentare la consapevolezza attraverso l'uso degli strumenti e delle importanti conoscenze che abbiamo.