Gian Carlo Grassi
Grassi, Casarotto e Comino sulla terrazza del Rifugio Monzino
Gian Carlo Grassi (al centro) con, da sinistra, Isidoro Meneghin, Siegfried Stohr e Franco Girodo nel Vallone di Sea, primavera-autunno 1986
Grassi mentre arrampica sul ghiaccioCi sono persone che non se ne vanno davvero, anche se la cronaca le ha archiviate da tempo. Oggi Gian Carlo Grassi avrebbe compiuto settantanove anni. Trentaquattro ne sono passati da quel primo aprile del 1991, quando il Monte Bove lo trattenne per sempre.
La sua scomparsa ha lasciato tanti orfani, me l'aveva detto un suo caro amico qualche anno fa. “Gian Carlo era come una sorgente di luce creativa che ha illuminato un’epoca, quando è morto tanti sono rimasti sgomenti”, aveva agigunto. Grassi, per chi l’ha conosciuto, non era soltanto un compagno di cordata: era una direzione, un modo di stare al mondo.
“Ha sempre vissuto inseguendo una passione inesauribile” aggiunse Enrico Camanni, scrittore e amico di gioventù. “Anche a quarant’anni vedeva meraviglia nella montagna, era Peter Pan”.
E davvero lo era.
Chi lo ha incontrato lo ricorda come un uomo pieno di curiosità, incapace di ripetere la stessa linea, attratto da tutto ciò che era ignoto, fragile, effimero. Non amava i riflettori, non collezionava gradi o record. Amava piuttosto l’esperienza, la ricerca, l’intuizione. È stato un esploratore del possibile, più che un atleta.
Allievo della Scuola Nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti, nel 1968 ne divenne istruttore, ma presto lasciò quell’ambiente fatto di ordine e rigore. Aveva capito che il suo alpinismo doveva parlare un’altra lingua, più libera e creativa. Della “Gerva”, come la chiamano a Torino, conservò le amicizie nate in cordata, come quella con Gian Piero Motti, con cui condivise il pensiero e il sogno del “Nuovo Mattino”.
Poi, negli anni Settanta, arrivò la svolta. Una malattia polmonare lo costrinse per mesi in sanatorio. Quando tornò a casa, con un piccolo sussidio e tanta voglia di vivere, lasciò il lavoro per dedicarsi alla montagna a tempo pieno. Fu allora che il timido “Calimero” della Gerva divenne il maestro di una nuova generazione di scalatori. “In realtà - ricorda l’amico Elio Bonfanti - tutti hanno sempre confuso il soprannome Calimero con l’idea del pulcino sfigato. Nella realtà quel soprannome glielo affibbiò Gian Piero Motti ai piedi del Castello Provenzale, in Val Maira, dopo un bivacco. Quando lo vide sbucare dal sacco a pelo con il suo casco bianco in testa, pantaloni neri, calzettoni gialli e pieno delle piume del sacco esclamò: sembri proprio Calimero!”.
Negli anni Ottanta si ritrovò sulle pareti del Bianco, nei couloir nascosti delle Grandes Jorasses, e poi nelle gole dimenticate delle valli di Cogne e di Susa, inventando un linguaggio nuovo: quello del ghiaccio. Intuì le potenzialità di quelle colate effimere che l’inverno disegna sulle rocce, e le rese terreno d’avventura.
Con Gianni Comino firmò prime ascensioni destinate a rimanere nella storia. Scoprì e battezzò colate ghiacciate che nessuno aveva mai pensato di scalare, linee sottili e incerte, che nascevano e morivano con le stagioni. Nacquero così vie come l’Ipercouloir delle Grandes Jorasses, e poi la stagione delle cascate, da Cogne alla Val di Susa, fino alla mitica Repentance Super, che al tempo era la più difficile della Valle d’Aosta.
“Non me lo vedevo a invecchiare” mi confidò Camanni. “Non perché cercasse rischi inutili, ma perché la sua vita era immaginazione, era azione”.
Morì di lunedì, come fosse uno scherzo, per un incidente banale.