Felice Benuzzi è stato un diplomatico italiano, famoso per l'evasione nel 1943 dal campo di detenzione di Nanyuki, dove era recluso come prigioniero di guerra. Non fu una fuga qualsiasi: riuscì nell'intento di scalare per primo la Punta Lenana del Monte Kenya insieme a due suoi compagni, riconsegnandosi agli ufficiali inglesi dopo 17 giorni di libertà.
Questa affascinante storia non è solo il tema centrale di Fuga sul Kenya, l'autobiografia di Benuzzi uscita nel primo dopoguerra, ma è diventata materia di studio per diversi scrittori, tra cui Rory Steele, autore per Monte Rosa Edizioni del coinvolgente Il cuore e l'abisso – la vita di Felice Benuzzi. L'autore australiano ha provato a catturare la figura di un uomo profondamente legato alla montagna, difficile da inquadrare nei ruoli che ha interpretato. «Fin da giovane subì l’effetto quasi erotico della bellezza, della mutevolezza e perfino della fredda crudeltà delle montagne, che valevano tutte le pene e gli sforzi fatti per raggiungere l’euforia della conquista».
Nato nel 1910 a Vienna, da padre droense e madre austriaca, passò la giovinezza in gran parte a Trieste, dove iniziò l'attività alpinistica appena undicenne, affascinato dalle imprese di Emilio Comici, ma soprattutto di Julius Kugy. Trasferitosi in Etiopia come volontario coloniale insieme alla moglie Stefania e alla figlia Daniela, venne fatto prigioniero nel 1942, internato prima a Naivasha e poi a Nanyuki, alla periferia della città. Il pow camp354 si trovava su un altopiano, lontano da tutto. È lì che vide per la prima volta il Monte Kenya e ne rimase profondamente colpito. «Felice non poteva restare inattivo non solo per la sua passione alpinistica, ma anche per un motivo altrettanto forte: la vita di prigione stava diventando intollerabile, lo stava facendo impazzire» spiega Steele.
Rory Steele © archivio R. Steele
Fin da giovane subì l’effetto quasi erotico della bellezza, della mutevolezza e perfino della fredda crudeltà delle montagne
L'impresa si presentò però disperata fin dai preparativi. «Felice e Giuan (il compagno di fuga che arriverà in cima con lui, ndr) erano ignoranti sia delle condizioni invernali in vetta al monte che di rotte alternative. Non avevano ovviamente possibilità di fare un periodo di acclimatamento per raggiungere una cima che supera i 5000 metri di quota, non avevano attrezzatura alpinistica per muoversi sul ghiaccio. Si fabbricarono una corda intrecciando i cordini che tengono insieme le brande su cui dormivano e dei ramponi con dei residui metallici recuperati al deposito».
La sera del 24 gennaio del 1943 fuggirono insieme a un terzo compagno di nome Vincenzo. Giorno dopo giorno risalirono il Fiume Nanyuki fino alla sorgente, basandosi su una mappa presa da un libro di missionari che avevano al campo. «Altre informazioni le ricavarono dalle scatolette di carne di marca Kenylon, che raffigurano anche il versante sud della montagna. Appresero così che era altrettanto impervio e persino più ghiacciato del nord. Tentarono il Batian ma vennero respinti da una tormenta, scalarono infine la Punta Lenana e già il giorno dopo la cima rientrarono verso il campo, che raggiunsero stremati e denutriti, 17 giorni dopo la partenza». Si presentarono alle autorità solo dopo essersi lavati e sbarbati, vennero destinati a 28 giorni di detenzione in cella.
L'impresa di Felice diventò leggendaria, ma restò difficilmente comprensibile ai più. Una possibile chiave di lettura si può ritrovare in uno scritto giovanile per la rivista Frontespizio, nel quale trattò il concetto di sehnsucht, criticando questo sentimento che riteneva investisse in maniera prepotente il popolo germanico. «Ma forse, inconsciamente, parlava di sé. La madre per prima d'altronde vide in lui un dualismo, tedesco-italiano, uomo pratico-uomo di sogni – spiega ancora Steele-. Felice si trovava in un conflitto interiore. Così scriveva di sé stesso nella propria autobiografia: il prigioniero Benuzzi era in contrasto con l'alpinista Benuzzi. Lui era un sodo realista e io un inguaribile sognatore». E più avanti scriveva di pace, compiutezza, realizzazione di sé. “Il fiume si trova nel mare. Diventa e muore. Già. Era proprio questo senso di compimento, di perfezionamento, insieme a un senso di fine, che io avevo intuito...”».