Il nome di Franco Nicolini è tornato a fare parlare di sé dall’impresa di Kilian Jornet, che ha preso ispirazione dal concatenamento dei Quattromila alpini della guida e rifugista trentino, compiuta nel 2008 insieme a Diego Giovannini e in parte con Mirco Mezzanotte. Franz, come lo chiamano gli amici, ha sempre avuto una spiccata passione per un alpinismo di velocità, quando ancora era un modo di intendere la progressione in montagna inviso agli ambienti più tradizionali. Ora i tempi sembrano cambiati.
Cosa pensi dell’impresa di Kilian?
È stato stupendo, bravissimo e mi fa piacere che mi abbia detto che sono stato un suo ispiratore. Lui non ha fatto altro che accelerare i tempi del nostro progetto, ma a essere sincero, nonostante siano tempi stratosferici, non è l’aspetto che mi colpisce di più Ho apprezzato molto la sua bravura alpinistica, perché tra quei Quattromila ce ne sono di non semplici.
Probabilmente un giorno arriverà chi ci metterà di meno. Forse, più del tempo eccezionale, bisogna considerare la capacità di rimanere concentrato che ha avuto.
Sono d’accordo. In montagna non si tratta di misurare i record, ma di dare il giusto peso alla gestione della cosa nel suo insieme. Quando lo facemmo io e Giovannini nel 2008, uno dei miei grandi interrogativi era: riuscirò a rimanere attento, a muovermi in sicurezza per così tanto tempo? Posso fare 3mila metri di dislivello al giorno per un mese, ma poi? La mia mente sarà capace di non cedere alla fatica, facendomi commettere delle imprudenze? Al tempo parlai con il compagno di cordata di Patrick Berhault, che era morto nel suo tentativo. Berhault era fortissimo, assolutamente al di sopra delle difficoltà incontrate. Ma tagliò una cresta per fare prima e la pagò con la vita. Durante il nostro tentativo a un certo punto abbiamo deciso di procedere legati. Mi ricordo che parlai con i miei compagni: «Davvero vogliamo rischiare di morire in una maniera stupida come cadere dentro a un crepaccio?». Ma quando sei stanco rischi di negoziare anche quello che non dovresti.
Ritengo le imprese tua, di Jornet e di Ueli Steck incomparabili. Innanzitutto perché muoversi con un compagno implica anche il rispetto delle fatiche e delle debolezze dell’altro. È diverso dall’avere dei collaboratori a disposizione. Questo senza nulla togliere a Kilian.
Quando si è in due per una cosa così lunga è inevitabile che ci sia un giorno che qualcosa va storto. Una volta il mio compagno è scoppiato sull’Aguille Verte. Ci è voluto del tempo per recuperare quella situazione. Poi ci si è anche di conforto, ma insomma, si è in due.
Anche le condizioni meteo sono state molto diverse e anche in questo caso il confronto non si può fare.
Noi avevamo più neve, qualcosa che ci ha favorito, perché dove ora ci sono crepacci siamo passati via bene. Ma poi cosa vogliamo dire di Ueli Steck? Ha fatto qualche volo in parapendio che può avere accorciato dei tempi, ma ha perso il compagno durante la traversata, si è trovato solo. Sono state tutte e tre cose diverse, ma in tutte e tre c’è stata avventura vera.
Cambiando argomento…quest’anno il Tosa-Pedrotti alla Bocca di Brenta è in ristrutturazione, ma avete mantenuto un presidio. Che tipo di turismo c’è?
Non si può pernottare, ma abbiamo tenuto aperto un locale perché è giusto così, anche se non si guadagna. In montagna serve un presidio in caso di maltempo o difficoltà e in molti ci hanno ringraziato per questo. Il turismo comunque è cambiato: una volta si veniva con la famiglia a fare la gita in montagna e si arrivava anche quassù, ora è diverso. I trentini si godono ancora le loro montagne, vogliono andare in giro, ma vedo meno famiglie.
Anche l’esperienza degli avventori è cambiata?
Ci sono molti più escursionisti arrivati dal post-Covid, ma meno gente sulle vie, che sono quasi abbandonate. Vedere nuovi escursionisti fa piacere: certo è che dovranno farsi, fare esperienza un poco alla volta. Sull’alpinismo invece c’è proprio una perdita di interesse, mentre le falesie di fondo valle sono piene.
Oltre alla fatica dei Quattromila, hai concatenato anche vie “classiche” del Brenta, dove l’impegno tecnico è stato importante.
Ho scalato 7 vie di arrampicata su vette della catena centrale del Brenta, con un dislivello totale di oltre seimila metri in 12 ore, difficoltà di VI grado. La Dibona al Croz dell'Altissimo è una via di oltre 1000 metri e ha un passaggio che è dato di VII+, anche se probabilmente non lo è. Ma la difficoltà tecnica c'era e quando arrampichi da solo in quelle condizioni...non è uno scherzo. Nel 1997 ho concatenato 15 cime della catena centrale del Brenta in inverno: 8mila metri di dislivello con gli sci, 7mila500 di arrampicata, fino al V grado. Ho avuto le mie gioie, ma non è mai stato il cronometro a farmi muovere.
Sei prossimo a partire di nuovo
In autunno andrò in Nepal, per un Ottomila. Ho già fatto Cho Oyu, Broad Peak e Shisha Pangma. A proposito di solitarie, lì andai da solo e devo dire che rimanere così tanto con te stesso in quelle condizioni ti mette davvero alla prova. Ogni dettaglio lo senti come una responsabilità verso te stesso, è tosta. Il Cho Oyu fu importante perché adottammo uno stile moderno: andata e ritorno dalla cima in 13 ore, con Simone Moro e Mirco Mezzanotte. Non si può dire che andammo di corsa, ma senza ossigeno su un Ottomila non è stato poi male.