Generazioni a confronto: quando l'alpinismo incontra l'arrampicata

Hanspeter Eisendle e Luca Andreozzi hanno dialogato all'Italian Outdoor Fest. "In montagna si può stare in silenzio senza bisogno di riempirlo".

Un incontro tra persone è sempre il risultato di due storie che si muovono una verso l'altra e la montagna può diventare un luogo – fisico e di significato- dove alpinismo classico e arrampicata urbana trovano un terreno comune. Hanspeter Eisendle e Luca Andreozzi rappresentano realtà agli antipodi: la guida alpina sudtirolese ha 69 anni appena compiuti, il climber toscano è un classe 1991. 

I due scalatori sono stati moderati da Luca Mich di Salewa all'Italian Outdoor Fest di Milano, dialogando a partire dalle loro differenti esperienze. “Da bambino volevo andare dove non c'era mai stato nessun altro – apre Eisendle. A quel tempo sarebbe potuto essere anche il deserto, ma volevo andare dove non c'erano le regole della scuola e della famiglia, ma bisognava imparare le regole della natura. Poi è stato l'alpinismo a darmi un mezzo per mettere in atto questa scoperta”. “Io ho iniziato ad arrampicare nel 1997, avevo solo sei anni - replica Luca-. Venivo dal mare, un contesto del tutto differente. Negli anni il mio rapporto con l'arrampicata è cambiato moltissimo. Ho iniziato con le gare, ma era un modo soprattutto per conoscere altri bambini, poi sono passato attraverso la fase prestazione. Ora come ora la roccia mi fa da specchio, sulla roccia posso comprendermi. È qualcosa di più introspettivo”.

 

Mich racconta il perché abbia voluto fare incontrare Eisendle e Andreozzi, dando vita a una esperienza che è diventata anche un video legato a una via salita insieme in Dolomiti. “Vengo dalla montagna e ci lavoro, per me è sempre stata casa. Ma anche per questo a un certo punto ho cercato di uscirne e andare verso il mondo urban e di fare incontrare realtà diverse. Questo festival in un certo senso rappresenta proprio l'unione dei due mondi ed era il posto giusto per un incontro”.

Luca Andreozzi era alla sua prima via lunga. “Non avevo mai toccato il mondo dell'alpinismo con mano. Con Hanspeter mi sono sentito tranquillo e mi sono potuto immergere totalmente in questa nuova dimensione. Ci sono stati momenti in cui mi sono trovato in difficoltà. Il problema non era certo l'arrampicata [Luca ha scalato fino al grado 9a, ndr] ma l'ambiente”.

Eisendle annuisce. “L'alpinismo non è fatto solo di difficoltà, ma di esposizione e non non siamo solo andati a fare una via, altrimenti avremmo potuto fare anche qualcosa di più difficile. Noi volevamo rappresentare questo tipo di situazione. Tutti e due abbiamo cercato di rappresentare il fattore umano legato al sentirsi esposti: è qualcosa che cambia nettamente la percezione dell'arrampicata stessa, influisce su quello che sentiamo e come lo sentiamo”.

 

L'esposizione è un fattore determinante nel determinare l'esperienza alpinistica, qualcosa che forse è stato “diluito” nella narrazione mediatica odierna, dove l'attenzione al grado e alla prestazione è diventata preponderante. Tanto il mondo legato all'arrampicata sportiva, quanto quello alpinistico sono mutati moltissimo in questi anni. Luca gestisce una palestra indoor e può toccare con mano il cambiamento. “L'arrampicata ha avuto un boom incredibile, diventando di moda. È molto più avvicinabile, ma avendo una palestra mi rendo conto che abbiamo una responsabilità: che rimanga un'attività sana”. Ci sono nuovi modi di scalare, che spesso non rimangono confinati all'ambito urbano o della falesia. “Le persone si sono moltiplicate - ammette Eisendle-. Ma la gente che esce non deve portare la palestra in montagna come approccio, deve portarsi le capacità acquisite. Se porto gli spit in montagna, rovino quello che abbiamo in montagna”.

 

Alla nostra domanda su cosa ne pensi del tema delle richiodature, la guida alpina altoatesina risponde senza assumere posizioni estreme, ma con chiarezza. “L'arrampicata è diventata una cultura, ma la cultura sopravvive e si propaga solo se riesce a esistere nella diversità, se riesce ad accettare l'altra parte. Secondo me le vie classiche devono rimanere così, ma non per forza bisogna usare chiodi vecchi. Si possono sostituire e si possono sostituire le soste, si può integrare il materiale disponibile con protezioni rimovibili. Diverso è il discorso in falesia, dove lo spit non deve rimanere cento anni e certe chiodature a mio avviso si possono rivedere in certi casi. Lo scalatore non deve finire a terra, per dire”. Andreozzi è d'accordo. “Io credo che ogni intervento in falesia debba avvenire in comunicazione con il chiodatore, ma dove c'è accessibilità deve esserci anche sicurezza”.

Nel finale, una riflessione su quale possa essere il vero punto in comune tra i due mondi. Eisendle individua la lentezza come un fattore chiave. “Una passeggiata di mille metri non è niente, una via di mille metri è molto lunga. Ma questo muoversi con lentezza deve essere un valore. Altrimenti è meglio stare a casa”. Andreozzi: “Quando abbiamo scalato insieme, abbiamo trascorso molto tempo in silenzio. Ma quel silenzio non chiede di essere riempito”.

Ecco allora che forse la chiave è proprio nel non volere riempire il più possibile di esperienze il tempo, nel non cercare di colmare dei vuoti. Solo così è possibile essere davvero presenti a sé stessi, che si pratichi arrampicata o alpinismo.