Giovannino Massari e la rivoluzione dell’arrampicata: dal Verdon alle prime gare. L'intervista

Pioniere dell’arrampicata libera, Massari racconta la nascita dello sport climbing in Italia, tra avventura, competizione e una visione autentica della scalata.

In quei primi giorni del luglio del 1985, sotto alla Parete dei Militi di Bardonecchia, Giovannino Massari non c’era. Ma ha una buona giustificazione…

“Proprio così – conferma – la prima gara internazionale di arrampicata sportiva me la sono persa, perché ero in Verdon, per salire in libera 'Sourveiller et punir', una via mitica a quei tempi, che era nei miei sogni da tempo. Poi, però, ho avuto modo di rifarmi, partecipando a molte delle prime competizioni di arrampicata, sia come atleta che come tracciatore”.

Doveroso, dunque, che anche lui fosse presente, nel weekend dello scorso 6 e 7 settembre, all’evento organizzato dal CAI in collaborazione con la Polisportiva e il Comune di Bardonecchia per celebrare i 40 anni di SportRoccia, accanto agli altri protagonisti di quell’evento storico e della nascita dell’arrampicata sportiva.

Giovannino Massari, cuneese, classe 1962, è stato fra i primi in Italia a sviluppare quella nuova visione che, tra la fine degli anni 70 e i primi 80, ha cambiato per sempre il mondo sella scalata. Nel suo caso, più che di “arrampicata sportiva”, forse sarebbe opportuno parlare di “libera”, perché l’attività di Massari si è sempre svolta a 360°, non solo nelle falesie, ma anche sui boulder e sulle vie di roccia in montagna, sempre all’insegna di un rigoroso rifiuto dei mezzi artificiali e della ricerca di un confronto leale con le difficoltà offerte dalle pareti. Ha vissuto l’epoca esplorativa dell’area del Finalese, ed è stato uno dei primi italiani a salire vie di grado 8a, ma ha dedicato molto tempo e passione anche all’apertura di itinerari di stampo più avventuroso nel gruppo della Rocca Provenzale e ha salito in libera diverse vie iconiche delle Alpi.

In quegli anni di straordinarie sperimentazioni, ricorda Massari, l’arrivo delle gare ha rappresentato un fondamentale fattore propulsivo e anche un elemento positivo, nel rendere palese un confronto rimasto fino ad allora latente fra i nuovi top climber.

“Sicuramente - racconta - prima delle gare c'era già una competizione molto accesa, che però non trovava un luogo di confronto esplicito e spesso influiva negativamente anche sui rapporti personali tra gli scalatori, suscitando conflitti e antipatie. Con l’arrivo delle gare, soprattutto con quelle disputate sulle strutture indoor, c'è stato un rilassamento generale sotto questo punto di vista: chi voleva competere poteva farlo in modo esplicito, secondo regole chiare e condivise. C’era una classifica ufficiale che palesava chi era il più forte in quel momento; chi arrivava dietro non aveva altro da fare che allenarsi di più e meglio, per potersi rivalere nell’occasione successiva. Ovviamente poi il confronto è continuato, e continua ancora oggi, anche sulla roccia. La disputa per aggiudicarsi la prima salita in libera di una via difficile in falesia ha comunque continuato a rimanere centrale, soprattutto negli anni in cui le linee estreme chiodate erano ancora poche; ma, per chi voleva vivere la scalata in un’ottica prevalentemente sportiva, le gare sono state, e sono tuttora, una grande opportunità di confronto leale e anche di crescita personale”.

Nonostante questi risvolti sicuramente positivi, molti, nell’ambiente degli scalatori e degli alpinisti degli anni 80, non videro certo di buon occhio l’avvento delle competizioni e, anche ai giorni nostri, non sono pochi quelli che si rifiutano di concepire l’arrampicata come un “semplice” sport.

“Certo - commenta a tal proposito Massari – confrontarsi tutti, nello stesso giorno, nelle stesse condizioni su una stessa via, e poi affidare l’esito della propria prestazione a una classifica è qualcosa che può fare paura, o che, comunque, rischia di non dire tutto di ciò che si è messo in gioco e dell’esperienza che si sta vivendo. Io penso che l’agonismo puro sia un aspetto della scalata, uno dei tanti modi in cui si può vivere questa cosa bellissima e preziosa, ma che non la esaurisce nella sua interezza. Per quanto mi riguarda, pur partecipando con entusiasmo alle gare, ho sempre avuto unavisione più ‘panteistica’, nella quale sono sempre rimasti fondamentali il confronto con la natura, l'arrampicata come flusso interiore, non solo come prestazione tecnica e atletica, ma anche come qualcosa che proviene da dentro, che muove e trasforma il tuo modo di essere e di rapportarti con mondo e con gli altri”.

Anche grazie alle gare, e soprattutto all’approdo dello sport climbing tra le discipline olimpiche, oggi l’arrampicata è divenuto un vero e proprio sport di massa, praticato da migliaia di persone. Inevitabile chiedere a un pioniere come Massari come veda questa evoluzione chi ha vissuto l’arrampicata libera ai suoi albori, quando era una dimensione riservata a pochi sperimentatori, per lo più ignorati dai media e dalle logiche del mercato.

“Credo che l’evoluzione sia stata nel complesso positiva - è il suo commento - perché l’aspetto competitivo esaltato dalle gare e l’aumento dei praticanti ha dato un impulso straordinario sotto svariati aspetti. Allo stesso tempo, come in tante attività, il sistema ha un po' fagocitato il movimento, con tutti i rischi di banalizzazione e conformismo che si manifestano quando qualcosa che nasce da una necessità e una passione spontanea si trasforma in una moda. L'evoluzione dell'ultimo decennio, che è quella della nascita e della proliferazione delle palestre cittadine di arrampicata indoor, ha poi cambiato radicalmente il modo in cui i ragazzi si avvicinano all'arrampicata. Prima c'erano passaggi graduali, che magari cominciavano con le escursioni in montagna, le prime salite facili, per qualcuno le ferrate, per poi approdare all’arrampicata o all’alpinismo. Oggi tutto comincia sugli appigli di plastica e questo spesso crea un 'buco' di esperienza e anche di cultura, che necessita di essere colmato quando si passa all’ambiente outdoor. Bisogna avere umiltà, fare un passo indietro, avere la pazienza di acquisire la visione complessiva indispensabile per muoversi in modo consapevole negli spazi naturali aperti. Credo che proprio la formazione di questa consapevolezza sia una delle questioni più importanti che oggi il movimento dell’arrampicata deve trovare il modo di affrontare”.