Gli eroi silenziosi degli Ottomila. Sherpa, hunza, baltì nel nuovo libro di Bernadette McDonald

L'autrice di "Ti telefono da Kathmandù" torna in libreria con un saggio avvincente dallo stile narrativo, per spiegare come si è evoluto il ruolo di sherpa, hunza e di tutti gli altri alpinisti locali, chiamati oggi a guidare l'himalaysmo mondiale, non senza contraddizioni.

Ci sono immagini così potenti, nella storia, da disegnare il futuro, ma anche da indurre a ripensare il passato sotto una luce diversa. Nel mondo dell’alpinismo, una di quelle di quelle immagini si è manifestata il 16 gennaio 2021: dieci nepalesi sulla vetta del K2, in inverno, per la prima volta in assoluto, a chiudere l’ultimo tassello della corsa alle prime salite invernali dei 14 Ottomila. Un evento che ha marcato una differenza abissale rispetto alla prima salita di quella montagna nel 1954, con la nota spedizione CAI-CNR, e al ruolo che vi giocò l’hunza Mahdi, costretto a bivaccare con Bonatti nella zona della morte, male equipaggiato e ferito a vita per via dei congelamenti riportati. 

È da questo parallelismo che Bernadette McDonald prende le mosse per delineare, in Eroi silenziosi (pp. 288, 25 euro, Mulatero 2025), la storia degli “alpinisti locali” (sherpa, baltì, hunza etc.). Quelli che fino a pochissimo tempo fa sono stati semplici comprimari delle più alte e impervie scalate del mondo sugli Ottomila delle loro zone, lasciando ai soli occidentali la fama e la ricchezza di sforzi sovrumani che invece ampiamente condividevano.

 

Volti, imprese, storie

Sono decine le storie riportate e ricostruite consultando altri libri (ben nutrita la bibliografia finale), o dove possibile dalla viva voce dei protagonisti, raccolte grazie alla tecnologia che vince ogni barriera geografica e alla collaborazione di persone in loco che hanno anche poi tradotto dalle lingue locali in inglese e trasmesso i frutti delle loro interviste all’autrice. Il volume, infatti, è stato scritto in tempo di pandemia, quando ogni spostamento era bloccato. 

I ritratti hanno uno stile molto narrativo, tanto che si possono leggere come piccoli racconti che sembrano quasi inventati, per quanto sono straordinari, e proposti in ordine cronologico per dare il senso di un’evoluzione. Attraverso le storie individuali si capiscono anche le dinamiche legate alle varie etnie. 

Emblematica quella legata alle spedizioni tedesche al Nanga Parbat negli anni Trenta, con capospedizione Willy Merkl. Gli inglesi avevano stabilito a Darjeeling il reclutamento degli sherpa del Khumbu, contadini e pastori in cerca di un’alternativa al magro lavoro con yak e granaglie. Nel 1932 Merkl si rivolse invece ai più vicini hunza pakistani, che tuttavia erano costretti a servire il Mir, lavorando in condizioni di semi-schiavitù: malnutriti, mal equipaggiati, finirono per essere il facile capro espiatorio del fallimento della spedizione. Due anni dopo, anche per soddisfare le esigenze di propaganda di Hitler, Merkl tornò con gli sherpa nepalesi, ma l’esito fu ancora tragico: quattro subirono amputazioni senza alcun indennizzo, al tempo non previsto. Fra loro Ang Tsering, che nonostante le ferite divenne il primo vero sherpa professionista.

Già diverso però è il racconto che Ang Tharkay fa del trattamento riservatogli dai francesi che salirono l’Annapurna nel 1950, il primo Ottomila salito dall'uomo. Ang Tharkay ebbe il merito di fissare uno standard nel modo di lavorare come sherpa e non è un caso che suo allievo fu Tenzing Norgay, la “prima superstar” come lo chiama l’autrice, perché nel 1953 salì per la prima volta l’Everest con Edmund Hillary. Il neozelandese non lesinò stima e apprezzamenti per Tenzing, facendo avanzare di un gradino importante la conquista della dignità per tutti gli alpinisti locali, che significa anche avere garanzie salariali e risarcimenti economici in caso di infortunio.

 

Fuori dall'ombra

A lungo, insomma, gli occidentali fecero fatica a dare il giusto riconoscimento ai locali, ingaggiati come portatori d’alta quota, in realtà sempre più colleghi alpinisti come e più di loro. E ancora oggi ci sono resistenze, sebbene l’avvento dell’epoca Nirmal Purja abbia dato la svolta definitiva: è un dato di fatto però che non sono posti sullo stesso piano Hermann Buhl e Kurt Diemberger con Gyalzen Norbu Sherpa, per quanto tutti e tre siano gli unici a vantare due prime ascensioni assolute sugli Ottomila. Lhakpa Sherpa è ormai famosa in tutto il mondo perché detiene il primato mondiale di prima donna a salire dieci volte sull’Everest, mentre Kami Rita Sherpa non ha rivali avendo realizzato, lo scorso luglio 2025, la sua trentunesima salita sull’Everest, ma solo l’interessamento del Guinness Book of World Records ha portato queste incredibili imprese all’attenzione di tutto il mondo. Come ci è voluto del tempo per dare la giusta importanza a Dawa Yangzum, la prima donna ad aver conseguito il brevetto di guida internazionale. 

Ora che pakistani e nepalesi guidano con competenza le spedizioni internazionali sugli Ottomila invece tutto è cambiato, e forse anche troppo.Siamo usciti dall’ombraha dichiarato Nimsdai, e il mondo finalmente ha notato coloro che c’erano da sempre. Ma, evidenzia McDonald, c’è il rischio che questa fama e la mediaticità che si porta dietro si ritorcano contro i protagonisti, che devono imparare a gestire un’attenzione prima impensabile. I loro progetti alpinistici finiscono sotto i riflettori con una foga che di fatto li spinge sempre più oltre, con rischi molto concreti per la loro vita. “La fama può diventare una trappola”, scrive, se continuiamo di questo passo Nirmal si sentirà in dovere di scalare le più alte vette dello spazio, senza ossigeno s’intende… 

Sajid Sadpara, figlio di Alì che nel 2021 invece morì nel tentativo di salire il K2 d’inverno, è “obbligato” a rimanere sotto i riflettori, perché adesso è il momento di lavorare per dare anche ai pakistani, dopo gli sherpa, lo status di guide affidabili e alpinisti esperti, proprio come era suo padre, eguagliando la rispettabilità dei cugini sherpa.

 

Una questione culturale

Il volume di Bernadette McDonald va letto con uno sguardo ampio, come una storia dell’evoluzione culturale che lega il mondo occidentale all’Asia himalayana: non a caso all’inizio compare un piccolo prospetto utile a ricordare che non di soli sherpa è fatto il mondo dell’alpinismo locale, ci sono anche baltì, hunza, astori, bhotia, ladakhi, magàr, rai e gurung, ciascuno con la sua storia geografica e culturale. E utile è anche spiegare al lettore cosa siano i portatori (fra cui si distinguono i portatori d’alta quota), i gurkha, i sahib. 

Quando è iniziata questa emancipazione? Per McDonald si può fare risalire a Babu Chiri, che ha iniziato a lavorare nel 1989: sconosciuto ai più, è stato lui a tracciare la via per le generazioni future, “una compagine di alpinisti che ha studiato attentamente che cosa finiva i prima pagina, come creare quelle prime pagine e come sfruttarle una volta pubblicate”. Oggi in effetti non c’è sherpa che non posti su Instagram le immagini delle imprese di cui è protagonista, durante le spedizioni organizzate dai compaesani. Ma il percorso non è stato indolore, come sa bene Simone Moro che nel 2013 fu coinvolto in una vera e propria rissa con gli sherpa imbufaliti perché con lo svizzero Ueli Steck e l’inglese Jonathan Griffith stava risalendo l’Everest nel tentativo di una traversata con il Lhotse, violando il divieto che quelli avevano imposto a tutti mentre ancora stavano attrezzando le vie, un momento delicato e pericoloso.

Quell’episodio racconta di un orgoglio che non riusciva più a essere contenuto e che avrebbe dato vita a imprese come quella di Mingma G, il primo sherpa a realizzare una scalata solitaria: nell’ottobre 2015 sull’inviolata Parete Ovest del Chobutse, 6686 metri nell’alta valle nepalese del Rolwaling. Mingma G proviene da lì, la regione dove Sir Edmund Hillary aveva provato a realizzare un progetto di sostegno alla popolazione locale, purtroppo poi naufragato fra mille difficoltà e resistenze da parte degli stessi residenti. 

Mingma G, come altri che ne avevano la possibilità, era allora andato a studiare a Kathmandù, ma con scarsi risultati. La sua strada evidentemente era un’altra: a 21 anni il suo primo Everest, nel 2016 il brevetto di guida internazionale dell’UIAGM, oggi è uno degli alpinisti più forti del suo Paese. La laurea in Economia gli ha poi dato le competenze che gli hanno consentito di aprire nel 2016 l’agenzia Imagine Nepal che, come la Seven Summit Treks di Mingma David Sherpa e la Elite Exped di Nirmal Purja, è una delle più accreditate nel suo settore.

 

E ora?

E ora agli alpinisti locali resta una bella responsabilità. Consapevoli che il “turismo d’alta quota”, come da definizione di Reinhold Messner, porta tanti soldi appagando le ambizioni di scalatori improvvisati quanto danarosi, vendono sogni di gloria sacrificando il lato più vero dell’alpinismo, ridotto a materia per pochi adepti sempre più in difficoltà nell’affrontare “by fair means” vie affollate anche su montagne così difficili (perché restano difficili e pericolose, nonostante i percorsi attrezzati e tutte le facilitazioni logistiche e tecnologiche). 

I più onesti rinunciano a dare giudizi, consapevoli da un lato forse che questa sia una sorta di passaggio obbligato, dall’altro che se non fossero stati i nepalesi a farlo, ci avrebbero pensato gli occidentali (o i cinesi). Allora forse meglio che a godere di questi proventi sia gente come Mingma David Sherpa, il primo nepalese ad aver salito tutti i 14 Ottomila, presidente e fondatore, nel 2010, della Seven Summit Treks appena citata. Si tratta della principale agenzia al mondo di spedizioni commerciali per cui per cui lavorano anche i suoi fratelli, tutti di esperienza elevatissima, e a cui si appoggiano i migliori alpinisti di oggi.

Sembrerebbe allora che salire le montagne più alte della Terra non sia più così inviso agli alpinisti locali, che notoriamente a quel lavoro si sono dedicati solo perché talmente poveri da non avere alternative. Eppure, nel 2020 la regista polacca Eliza Kubarska al Trento Film Festival vinceva il Premio “Mario Bello” del Centro di Cinematografia e Cineteca del CAI con il film The wall of shadows, documentando la vicenda di una famiglia nepalese in cui il padre accettava di salire una montagna sacra per la sua gente solo per guadagnare abbastanza da garantire ai figli un futuro diverso. Magari più orizzontale, ma molto meno pericoloso.