A cura di Filippo Del Vecchio
Gli omini di pietra sul Gran Sasso © Nelia Contestabile - WikimediaChiunque abbia camminato almeno una volta in montagna si sarà imbattuto in quei curiosi cumuli di pietre che costellano i sentieri. Quei cumuli sono gli ometti, semplici costruzioni in equilibrio, nate dall’accatastare sassi di varie dimensioni secondo una logica piramidale. Vengono chiamati anche omini di pietra o uomini di pietra, proprio per la loro forma vagamente antropomorfa. A prima vista possono sembrare solo segnavia silenziosi, ma racchiudono molto di più.
Questa pratica accompagna l’uomo sin dal Neolitico, periodo in cui gli ometti venivano usati per segnare la strada. Nel Medioevo, a questi stessi mucchi di pietre si legavano storie e leggende di streghe e diavoli che, nelle tenebre, si radunavano attorno a essi. In tempi più recenti, sono diventati una forma di segnaletica semplice, economica e a basso impatto ambientale, perfettamente in sintonia con lo spirito della montagna.
Si sbaglia, quindi, a pensare che gli ometti siano un’esclusiva delle Alpi o degli Appennini. Simili strutture si trovano in tutto il mondo, con nomi e significati diversi. In Mongolia si chiamano ovoo, nell’Artide inuksuk, in Svezia kummel, dove spesso vengono collocati su isolotti per guidare i navigatori ed avvertirli di una secca imminente. Ovunque si trovino, però, sembrano assolvere due funzioni universali: indicare la strada e offrire un punto di riferimento a chi, per qualsiasi motivo, ne ha perso uno.
Ricordo ancora con chiarezza un episodio di qualche anno fa. Dopo una giornata trascorsa in vetta al Terminillo, nel cuore dei monti Reatini (dove, curiosamente, di ometti non ce ne sono molti), mi fermai al rifugio Angelo Sebastiani per una meritata sosta. All’ingresso, appeso al muro, c’era un piccolo quadretto con una poesia intitolata L’ometto di sassi, firmata da Lamberto Delmirani. Mi colpì a tal punto da fotografarla. Solo di recente ho ritrovato quella foto e rileggere oggi quei versi – in un tempo segnato da frenesia, individualismo e perdita di orientamento valoriale – mi ha toccato in modo nuovo e profondo.
Sapete cos’è?
Non è un semplice mucchio di pietre!
È un caro amico che ci guida in montagna,
ci saluta al passaggio e ci attende al ritorno.
È come un gendarme, goffo e sbilenco
ma fedele alla consegna.
Sfida le intemperie e resiste ai venti.
Anche nella bufera emerge dalla neve.
È indice di volontà e segno di altruistico alpinismo.
È come un faro: infonde fiducia
sia nella nebbia che nella notte.
Ricordalo! Non è un semplice cumulo di sassi!
È come un monumento.
È pieno di ricordi.
È testimone del passato.
È guida nel presente.
È sprone a proseguire e, se
lui si lasciava sostegno,
fedele custode del tuo ricordo.
Lamberto Delmirani (CAI - ROMA)
Questo testo semplice, mi è sembrato improvvisamente attuale, capace di parlare anche al nostro presente. Interessante riflettere infatti del significato profondo nascosto tra quei versi e di come, a volte, sia proprio la montagna a custodire ciò che altrove rischia di andare perduto.
C’è qualcosa di profondamente umano e commovente nel gesto di raccogliere una pietra e posarla sopra un’altra lungo un sentiero o su una cima. È un gesto antico, istintivo, che si tramanda da escursionista a escursionista, da generazione a generazione. Ma, come ci ricorda con emozione e delicatezza Lamberto Delmirani, non si tratta di un semplice mucchio di pietre.
Nelle sue parole, l’ometto si anima. Diventa una presenza viva, una figura amica, una compagna silenziosa del cammino, “ci guida in montagna, ci saluta al passaggio e ci attende al ritorno”, scrive Delmirani. Non è solo un riferimento per l’orientamento ma memoria, spirito della montagna, è segno di chi è passato prima e messaggio per chi verrà dopo.
La poesia ci offre una visione che va oltre l’aspetto funzionale dell’ometto. Lo paragona a un “gendarme goffo e sbilenco ma fedele alla consegna”, a un faro nella nebbia, a un monumento che “è pieno di ricordi, è testimone del passato, è guida nel presente, è sprone a proseguire”. L’ometto, nella visione dell’autore, diventa simbolo di quell’alpinismo altruista e silenzioso che è nel cuore della filosofia del Club Alpino Italiano. Fare un passo non solo per sé, ma anche per chi verrà dopo lasciando un segno, un appoggio, una sicurezza.
Quante volte, nella fatica di una salita o nella solitudine di un crinale immerso nella nebbia, ci siamo rasserenati alla vista di un ometto? Quante volte ci ha confermato di essere sulla strada giusta, offrendoci fiducia e conforto, come una stretta di mano invisibile?
Proprio come un faro che non fa rumore ma indica la rotta, anche l’ometto ci accompagna senza parole, restando lì, saldo, spesso malandato, piegato dal vento o semi-nascosto dalla neve, ma ancora presente. Come scrive Delmirani, “se gli lasci un sostegno, lui si solleva e rimane… fedele custode del tuo ricordo”.
È un invito potente a lasciare tracce buone, a costruire relazioni anche nel silenzio, a ricordarci che ogni nostro passaggio può avere valore per chi camminerà dopo di noi.
In un tempo in cui il ritmo veloce e individualista della società tende a cancellare la memoria, questa poesia ci riconduce a un’etica del cammino lenta, rispettosa e condivisa. L’ometto di sassi è allora molto più di una costruzione effimera ma è simbolo di comunità, di memoria viva e di fiducia nel futuro.
La prossima volta che ci troveremo davanti a un ometto lungo il sentiero, fermiamoci un istante. Aggiungiamo una pietra non per abitudine, ma con consapevolezza. Quel gesto semplice custodisce molto più di quanto sembri: è parte della nostra storia, ma anche di quella degli altri. È un segno silenzioso di chi è passato e un messaggio per chi verrà. Perché la montagna, se sappiamo ascoltarla, osserva, accoglie e – senza far rumore – ci restituisce sempre qualcosa in cambio. Un po’ come quel saluto spontaneo, semplice e autentico, che ci scambiamo quando incrociamo qualcuno in montagna. Un gesto che sui sentieri ancora sopravvive, perché in quota ci si riconosce anche senza conoscersi.
Anche l’ometto fa lo stesso, non parla, ma saluta. Sta lì, saldo nel vento, testimone discreto del nostro passaggio, ed è forse proprio in questi piccoli gesti – una pietra lasciata, un saluto dato – che la montagna ci insegna a sentirci meno soli, più uniti, e parte di qualcosa di più grande.