Se le idee precedono gli atti (e chi può dubitarne) il Club Alpino Italiano nasce il 12 agosto 1863 sul Monviso, già scalato nel 1861 dagli alpinisti britannici e dalle guide di Chamonix. La più piemontese delle montagne, la prima che i contadini della pianura vedono accendersi al sorgere del sole e l’ultima che gli innamorati del Valentino guardano spegnersi nei tramonti sul Po, è andata allo straniero. Una bella umiliazione. Due estati dopo Quintino Sella, ex ministro delle Finanze del Regno, ripete l’ascensione con gli alpinisti italiani e quando scende scrive una lettera a Bartolomeo Gastaldi: «I barometri erano stati paragonati col barometro della specola di Torino, e furono ancora paragonati tra di loro e infine riferiti al tuo». Poi confessa: «Queste erano le intenzioni, ma… i progetti di una serie di osservazioni andarono tutti in fumo. Ci limitammo dunque a trovar modo di giungere alla vetta del Monviso». E continua: «Qual è l’italiano non affatto insensibile alle bellezze della natura, il quale non desideri soggiogare questa splendida montagna, la cui vetta è per intiero nostra?». Ecco la vera motivazione della scalata: il riscatto patriottico. Le urgenze del giovane Stato s’impongono sulla consueta frequentazione delle Alpi per studiare e capire la natura. Riprendersi le cime è come fare un’altra volta l’Italia.
Nonostante la giovane età Sella è un consumato esperto di rocce, studioso di mineralogia e cristallografia. Tra i suoi compagni di ricerca figurano il geologo Felice Giordano, che nel 1865 organizzerà la scalata del Cervino in gara con l’inglese Edward Whymper, e lo stesso Gastaldi che ha accantonato i codici dell’avvocatura per seguire la passione per i ghiacciai. Gli entusiasti salitori del Monviso provengono da un agiato entourage, sono legati alle montagne per motivi scientifici e allo stesso tempo attratti dall’aspetto sportivo ed esplorativo, consapevoli del ruolo strategico delle Alpi come spartiacque di frontiera e baluardo simbolico. Due mesi dopo l’ascensione, una quarantina di loro fonderà il Club Alpino al Castello del Valentino, riunendo alcuni deputati del Regno – segno della chiara continuità tra alpinismo e politica – e un vario mondo di gentiluomini, studiosi, professionisti e artisti affascinati dal “terreno di gioco” delle Alpi e dalle prerogative fisiche e morali dell’alpinismo.
Sono passati 160 anni. I cambiamenti sociali e culturali hanno rimescolato i valori originari, spesso modificandoli, talvolta reinventandoli. Il CAI non è più un cenacolo di accademici e nobiluomini – l’élite della scienza e della politica! – ma è la casa di tutti, perfino di chi non va in montagna; ha preso a bordo persone e interessi diversi, talvolta conflittuali. L’afflato divulgativo dei padri e poi dei figli l’ha reso sempre più popolare, mentre il fascismo confondeva la piccozza e il fucile, i partigiani salivano in montagna, il Nuovo Mattino archiviava l’alpinismo eroico e il turismo consumista abbassava le cime, banalizzandole, e in tutto questo cambiare il CAI si è più volte
ritrovato in panni nuovi. E oggi? Non può dirsi interamente un'associazione ambientalista perché ospita anche i negazionisti, non è una scuola professionale perché si basa convintamente e fermamente sul volontariato, non è più l’unica via d’accesso ai sentieri e alle pareti e temo non sia ancora fino in fondo sponda per le politiche montane:. Ma una vocazione è certa: sarà sempre più un centro di educazione e di narrazione della montagna, temi cruciali nel secolo della crisi climatica e dell’outdoor di massa. In una parola, cultura. Chi può farlo, se non il CAI?