Gipeto - Foto Giles Laurent - Wikimedia Commons, CC BY-SA 4.0
Gipeto con preda - Foto Francesco Veronesi - Wikimedia Commons, CC BY-SA 2.0
Gipeto in volo - Foto Giles Laurent - Wikimedia Commons, CC BY-SA 4.0
Gipeto - Foto Chme82 - Wikimedia Commons, CC BY-SA 4.0
Gipeto - Foto Pierre-Marie Epiney - Wikimedia Commons, CC BY-SA 2.0Il gipeto (Gypaetus barbatus) è riconosciuto come l’avvoltoio più minacciato d’Europa. Agli inizi del Novecento, la persecuzione diretta da parte dell’uomo, incentivata spesso da ricompense e supportata da credenze popolari errate, associata a una progressiva riduzione delle risorse alimentari, condussero il gipeto all’estinzione in diverse aree montuose dell’Europa centrale e meridionale, Alpi comprese.
Grazie a progetti di reintroduzione, avviati negli anni Ottanta, con il coinvolgimento di molti Paesi europei, la specie è tornata a espandersi e oggi presenta la maggiore concentrazione di coppie riproduttive nell’area dei Pirenei.
Una caratteristica particolare, che accomuna il gipeto ad altre specie di rapaci territoriali, è quella di identificare dei siti per la nidificazione, che vengono riutilizzati per diversi anni, anche secoli. Emblematico è il caso del nido di un girifalco (Falco rusticolus), il falco più grande del mondo, rinvenuto in Groenlandia, che dalle analisi effettuate sui materiali fecali presenti nel sito, risulta essere stato utilizzato dalla specie per oltre 2.000 anni.
Il gipeto predilige le falesie, andando alla ricerca di grotte o cenge riparate, che possano garantire protezione al nido, sia in termini di difficoltà di accesso per i predatori terrestri ma anche dalle intemperie, offrendo un microclima ottimale per la conservazione degli accumuli di ossa, che diventano cibo per i pulcini, e del materiale stesso di cui si compone il nido. Materiale che può essere di origine naturale, come ramoscelli, fibre vegetali o lana, ma anche antropica, come pezzi di spago e stoffa.
Ogni nido rappresenta pertanto una fonte di informazioni eccezionali, sia sull’alimentazione della specie ma anche sulla storia dell’ambiente in cui il nido si inserisce. Uno studio di recente pubblicazione, condotto nel Sud della Spagna, svela come i nidi di gipeto possano fungere da finestre aperte su un passato anche lontano.
I nidi di gipeto, un museo a cielo aperto
Tra il 2008 e il 2014, nel Sud dell Spagna, è stata condotta una ricerca intensiva su 12 nidi di gipeto. La specie si è estinta nella zona circa 70-130 anni fa, ma tra le pareti rocciose si conservano ancora decine di questi “nidi storici”, che potremmo azzardare a definire dei siti archeologici.
Mediante un approccio stratigrafico, basato su procedure archeologiche e datazione al carbonio 14, i ricercatori hanno potuto documentare l'età dei nidi e di parte del materiale accumulato, ricavando interessanti informazioni di carattere storico e socio-ecologico.
In totale sono stati identificati 2.483 reperti, la maggior parte (2.117) costituita da resti ossei, come anticipato legati alla alimentazione della specie, cui si aggiungono 43 frammenti di gusci d'uovo. Il restante 9,1% (226 reperti) è risultato essere composto da materiale di origine antropica di vario genere, quali resti di tessuti, pezzi di spago, per arrivare a un dardo da balestra, non datato, che secondo le ipotesi dei ricercatori, potrebbe essere stato scelto dai rapaci come materiale “da costruzione”, alla stregua di un rametto, o essere arrivato al nido all’interno di una preda, consegnata come cibo ai piccoli.
La datazione al radiocarbonio, effettuata su alcuni reperti di origine antropica, ha confermato la presenza di materiali risalenti a diversi secoli fa. È il caso di un frammento di cesto, rinvenuto in un nido e risalente al XVIII secolo. O ancora di due interessati reperti rinvenuti negli strati superficiali di un secondo nido: un sandalo completo, fatto di corda di sparto, risalente a oltre 650 anni fa esempio delle cosiddette Agobìa, calzature in fibra vegetale che duravano pochi giorni e dunque venivano di continuo riparate e sostituite, e un frammento di pelle di pecora dipinta con l’ocra, anch’esso risalente alla fine del XIII secolo.
I nidi di gipeto, così come accade per altri rapaci “accumulatori” come il Capovaccaio (Neophron percnopterus) rappresentano dei veri e propri musei naturali. Come anticipato, la loro ubicazione favorisce la conservazione di materiale biologico e storico, rendendoli delle finestre su un passato, anche lontano.
I resti ossei sono in grado di fornire non solo informazioni dirette sulle abitudini alimentari del gipeto, ma anche indirette sulla abbondanza e distribuzione delle specie selvatiche e domestiche nel passato. Un passato che, nel caso della ricerca spagnola, arriva fino al XIII secolo. I manufatti, come i sandali di sparto o i cesti, risultano invece di particolare interesse etnografico, regalando l’immagine di comunità agricole che realizzavano oggetti utilizzando fibre vegetali.
I frammenti di gusci di uova possono essere oggetto di esami tossicologici comparativi, con materiale contemporaneo o museale, volti a indagare la presenza di pesticidi, come i PCB, e quantificare il loro eventuale ruolo nella estinzione locale dei gipeti. Eventuali rametti e pollini presenti nel nido, possono essere utilizzati per la realizzazione di ricostruzioni paleoambientali e cronologiche.
Il nido rappresenta dunque una fonte preziosa di dati, utili per studi in varie discipline, quali etologia, etnobiologia, ecologia, paleoecologia, archeologia. Il gipeto, come dichiarato dai ricercatori, si dimostra in tal senso un “bioindicatore di eccezionale valore per il monitoraggio ecosistemico a lungo termine e la ricerca interdisciplinare.”