Il 15 settembre 1946 c’è il sole sul Monte Bianco. Aria tiepida, ombre lunghe, venature autunnali. Giusto Gervasutti è con il fido Giuseppe Gagliardone.
“Sei pronto Giuseppe?”
“Tutto a posto: andiamo.”
A La Palud salgono sulla funivia. Alla stazione del Pavillon incrociano Toni Gobbi, uomo generoso e montanaro per scelta. Viene dalla pianura come Giusto.
“Come sono le condizioni sul Tacul?” chiedono.
“Ottime, molto meglio che in agosto, purché il tempo tenga”.
“Grazie Toni, buona discesa, riposati”.
“Ciao Giusto. Buona arrampicata”.
La scalata
Le guide del Monte Bianco sanno che il Fortissimo tenterà il pilastro, e sanno anche che lo salirà. Con il bel tempo Gervasutti passa dappertutto.
Verso sera il friulano e il saluzzese arrivano al rifugio Torino. Il custode accoglie Giusto come uno di casa. Cenano, preparano il materiale da scalata e si coricano.
Il 16 settembre il cielo è ancora sereno. Si vestono, bevono un caffelatte ed escono sul ghiacciaio. È ancora buio ma conoscono la pista a memoria.
“Attacchiamo alle 8 – scrive Gagliardone –. Incontriamo subito due passaggi difficili; Gervasutti è in gran forma e li supera col suo solito stile brillantissimo che mantiene durante tutta la salita. È allegro ed ogni tanto canticchia. Superiamo piccoli salti coperti da ghiaietto, oltre i quali ci fermiamo a mangiare qualcosa… Sempre salendo sul lato sinistro dello spigolo giungiamo, alle ore 15,20, a poco meno di metà salita, superando alcuni tratti molto impegnativi. Qui ci fermiamo a fare una piccola discussione, se proseguire o ritornare, dato che il tempo dà segni di evidente cambiamento: io sono per proseguire, perché mi pare che il tempo, pur peggiorando non precipiti; ma Gervasutti prudentemente riesce a convincermi…
Scendiamo due lunghezze assicurati quindi, sopra ad uno strapiombo, Giusto prepara un anello di corda per la prima corda doppia, mentre io preparo le due corde. Appena la corda doppia è a posto, ci sleghiamo ed io scendo per primo velocemente, tutti i trenta metri, fermandomi su di un terrazzino. Mentre sto osservando sotto di me una serie di placche inclinate, Giusto mi raggiunge ed assieme cerchiamo di ritirare le corde. Ma purtroppo, dopo un paio di metri, queste non scorrono più… Risale e arrivato sopra lo strapiombo mi dice la ragione per cui le corde non scorrevano: il nodo s’era incastrato in una fessura. Dall’alto mi grida di legarmi in fretta e di tirar fuori tutti i chiodi che ho nel sacco per fare una serie di corde doppie in maniera da accelerare la discesa, ed evitare il bivacco. Mentre così chinato sul sacco stò mettendo fuori i chiodi, sento un tonfo ed un’esclamazione. Mi raddrizzo e vedo solo più lui, precipitare sulle placche inclinate…”
Gagliardone si trova di colpo solo e perduto. Gervasutti è caduto con le due corde, lasciandolo a tremare sul terrazzino. Giuseppe prova a scendere senza corda, abbandonando lo zaino del compagno. Lascia tutto, anche un prezioso anello di cordino. Adesso è completamente inerme sulla parete, ma vede le tracce degli escursionisti della Vallée Blanche. L’adrenalina e lo shock lo rendono freddo, insensibile, quasi disumano. Gli salvano la vita.
“Aiuto!”
Una cordata si ferma sul ghiacciaio.
“Aiuto!”
Un uomo si slega e sale verso la parete. Gli urla, si urlano, Giuseppe non è più solo. L’uomo è Eugenio Bron, che scopre il corpo di Gervasutti e dà l’allarme.
Il giorno dopo i soccorritori raggiungono Gagliardone e lo salvano. Bron, Grivel e Gobbi lo calano alla base del pilastro, gli parlano, lo tengono al mondo. Con la piccozza in mano s’incamminano sulle tracce del toboga che sta riportando a valle Gervasutti. Seguendo la scia del compagno morto Gagliardone ritorna alla vita, e a ogni passo il ricordo fa più male. Tiene duro fino al rifugio, dove finalmente si abbandona al pianto.
Il pilastro centrale del Mont Blanc du Tacul prenderà il nome di pilier Gervasutti.