In quota si dorme male? Cosa ci dice la scienza

Analisi mediche effettuate in alta quota dimostrano che, a pesare maggiormente sulla qualità del sonno, sono le sensazioni. Si ritiene spesso di aver dormito male anche quando, a livello oggettivo, così non è.

Trascorrere una notte in quota, che si tratti di tenda, bivacco o rifugio alpino, rappresenta per molti una esperienza spiacevole, per non dire da dimenticare. I racconti degli alpinisti, fin dai primi esploratori delle alte quote, riportano episodi di insofferenza notturna, di ore trascorse nella difficoltà di prendere sonno, o di sonni interrotti. Il tutto vissuto nell’attesa della sveglia, segnale di avvio di una giornata impegnativa tra le cime. La scienza, cosa ci dice in merito? È vero che in montagna si dorme così male, e perché?

L’Eurac Research, ha diffuso di recente il parere di un medico, il dottor Nikolaus Netzer, impegnato in studi sul sonno in alta quota da oltre 30 anni, secondo cui il dormire male in alta montagna, fenomenologia che accomuna principianti e alpinisti esperti, sia da considerarsi una sorta di concetto relativo. 

Il dottor Netzer sottolinea che, la risposta fornita alla classica domanda “Come hai dormito stanotte?” sia profondamente affetta da soggettività. Si cerca di esprimere a parole la sensazione che si è provata, ma non è detto che ciò corrisponda alla oggettiva qualità del sonno. In parole povere, vi sono casi in cui ci si sveglia convinti di aver dormito poco o male ma, qualora si avesse la possibilità di essere monitorati in maniera accurata durante le ore notturne, con apposite strumentazioni, si scoprirebbe di aver riposato in maniera adeguata e sufficiente ad affrontare la salita verso la cima.

 

Oggettivamente, in quota non si dorme poi così male!

L’esame cui ogni alpinista dovrebbe sottoporsi, per comprendere se effettivamente abbia dormito male o meno, si chiama polisonnografia, tecnica non invasiva che consente di misurare diversi parametri, quali le onde cerebrali, i movimenti oculari, l’attività cardiaca e respiratoria e il grado di saturazione di ossigeno nel sangue. 

Il dottor Netzer ha avviato le sue ricerche sul sonno in alta quota, applicando la polisonnografia, nel 1993. All’epoca i dispositivi con cui si misura oggi il sonno apparivano rudimentali e il medico ne portò con sé uno sull’Aconcagua (6.962 metri), nelle Ande argentine, dove realizzò una serie di polisonnografie sperimentali, a quota 6.400 metri. Una ipotesi diffusa in ambito medico a inizio anni Novanta, riteneva il sonno di qualità scadente, caratteristico delle alte quote, potesse favorire lo sviluppo della sintomatologia del Mal di Montagna Acuto (AMS). Un rischio non di poco conto.

Sorprendentemente, Netzer si rese conto che, a livello oggettivo, andando a interpretare i risultati ottenuti, tutti i membri della spedizione sottoposti ad analisi - 3 uomini e 1 donna - risultassero aver dormito bene. Cosa si intende per “bene”? Come dettagliato dal dottore, un sonno di durata sufficiente e caratterizzato da una giusta ripartizione percentuale tra fasi di sonno delta, necessarie per il riposo cellulare e il rafforzamento del sistema immunitario, e fasi di sonno REM (rapide yes movements, ovvero sonno con rapidi movimenti oculari) importanti a livello di prestazioni mentali.

Le osservazioni di Nikolaus Netzer, hanno trovato conferma in studi successivi, realizzati sia in ambiente controllato che in campo. Sussistono variazioni nella qualità del sonno, che possono essere indotte dal grado di stanchezza o dal livello di acclimatazione ma, in termini di durata e alternanza delle fasi, il sonno in quota si conferma non essere poi, in media, così male.

La qualità oggettiva del sonno non equivale dunque a quella soggettiva, che è influenzata dalle sensazioni. Dormire in quota può risultare poco piacevole per una serie di fattori, quali la presenza di altre persone in camerata o in tenda, il vento, l’umidità, il freddo, perché no talvolta il caldo, e non per ultima l’ansia per l’indomani, dalla sveglia all’avventura da affrontare in quota. A pensarci bene, come sottolinea l'esperto, “se il sonno fosse così pessimo come si pensa, l'uomo non sarebbe in grado di salire a queste altitudini”.

 

Respirazione ed evoluzione

Sebbene la polisonnografia non rilevi condizioni di particolare anomalia in termini di durata e alternanza delle fasi del sonno, vi sono delle variazioni oggettive che avvengono quando si dorme a quote elevate. A cambiare è il modo in cui si respira. Il corpo risponde infatti alla carenza di ossigeno con un meccanismo fisiologico, chiamato respirazione periodica, che può manifestarsi già a 3.000 metri.

"Iniziamo a respirare più velocemente e più profondamente per compensare l'aria rarefatta e ottenere più ossigeno – spiega il dottor Netzer, aggiungendo che in tal modo si determini un decremento nella concentrazione di anidride carbonica nel sangue, che innesca un segnale nel cervello, che determina l’interruzione della respirazione. Ecco che si determina uno stato di apnea, che permette all'anidride carbonica “di riaccumularsi e ribilanciare il nostro equilibrio acido-base, cruciale per tutte le funzioni corporee."

Negli anni Ottanta, esperimenti condotti con moderni polisonnografi in camere simulate da parte dell'Aeronautica Militare statunitense, avevano stabilito che le apnee provocate dalla respirazione periodica determinassero una successione di micro-risvegli inconsci detti arousal. Come è possibile dormire bene, se si è sottoposti a micro-risvegli durante la notte?

Il dottor Netzer chiarisce che il corpo umano riesce a tollerare questa fenomenologia e tale capacità di adattamento è da considerarsi un retaggio della nostra evoluzione, quando, in ambienti ostili, era vitale mantenere un livello di semi-allerta anche durante il sonno (ad esempio, riposando su un albero con predatori in agguato).

È una capacità che siamo perfino in grado di allenare, come dimostrano gli atleti estremi che, ad esempio per affrontare gare di ultra endurance, imparano a sfruttare i micro-sonni, ovvero periodi di riposo programmati e molto brevi, che consentono al corpo di recuperare un minimo di funzionalità cognitiva e fisica. In conclusione: sebbene in alta quota si verifichino una respirazione alterata e micro-risvegli, nessuno dei due fenomeni è considerato causa di stanchezza oggettiva.

Se a pesare maggiormente sulla qualità del sonno è la nostra soggettività, il consiglio migliore, secondo il dottore Netzer, non può che essere uno: non pensarci troppo. Evitare di andare in quota già nella piena convinzione che si dormirà male.