Matteo Rivadossi è una figura particolare nel panorama alpinistico italiano. La sua passione per la montagna si è divisa equamente tra il “sopra” e il “sotto” della superficie terrestre, tra scalata e speleologia. Sempre però con un richiamo per l'esplorazione, intesa non solo come dimensione geografica, ma come una predisposizione a interpretare la montagna secondo schemi e modalità nuove. Canyoning, dry tooling e tanto altro: per alcune di queste attività Matteo non è stato solo un valido interprete, ma un innovatore.
Come è nata la tua passione per la montagna?
Ho iniziato ad appassionarmi da piccolo, sui sentieri di casa, accompagnato da mio papà. Lui aveva fatto metà dei 4000 delle Alpi, massimo terzo grado. Mi ha portato a fare tutte le ferrate possibili. Mi ricordo di avere fatto le Bocchette del Brenta, senza imbrago perché mi riteneva pronto per quel poco che aveva visto del mio modo di arrampicarmi sulle piante. Si vede che aveva capito che me la cavavo, ma è una cosa che se ci penso oggi che ho tre figli...D'altronde avevo iniziato ben presto a scalare sulle rocce del paese e a un certo punto mi ha regalato un corso con una guida alpina, Severangelo Battaini. Avevo 15 anni, nel 1985, eravamo in vacanza presso il Rifugio Tuckett (Dolomiti di Brenta, ndr). È stato il più bel regalo che ho mai ricevuto. Ho fatto la Kiene al Castelletto, la normale al Campanil Basso, il Canalone Neri. Imparando le tecniche di assicurazione, mi sono reso conto che fino a quel momento in pratica ero andato incontro al suicidio. Alla falesia del paese (La Corna, a Nave, ndr), salivo 15-20 metri slegato. A fine '85 ho iniziato a mettere gli spit, a mano. C'erano solo un paio di vie, io ne avrò chiodate una ventina. Passavo ogni sera lì ad allenarmi e intanto avevo iniziato anche a scendere sotto terra...
La speleologia è stato un “tradimento” dell'arrampicata?
No, perché in settimana scalavo e il fine settimana andavo per grotte. Anche in quel caso avevo iniziato da solo, rischiando la vita: discese con corde marce, da solo. Sono entrato nel Gruppo Grotte Brescia nel 1988, era l'unico modo per accedere all'Omber en banda al bus del zel. Ora raggiunge i 21 chilometri, al tempo ce n'erano una decina. La mia passione per la speleologia è stata qualcosa di viscerale. Ero stato a Frasassi e avevo sentito un richiamo fortissimo, non sono mai riuscito a capire perché razionalmente. È qualcosa che ho dentro di me. Anche i picchi e le gole mi facevano entusiasmare, ma in grotta mi sono realizzato, mi sento un tutt'uno con l'ambiente. Forse influiscono anche gli adattamenti psicofisici e di regolazione, fatto sta che in grotta sono un'altra persona, sono più vicino alla mia essenza. Sono tornato 40 anni dopo a Frasassi e ho ritrovato le stesse sensazioni di meraviglia.
Come è proseguito il tuo “viaggio” da speleologo?
È diventata una scelta di vita, ho fatto grotte sempre più impegnative. Nei due anni successivi mi ci sono dedicato a tempo pieno, è stato un vorticoso susseguirsi di viaggi. Non più solo nel bresciano, ma in tutta la Lombardia, il Veneto, le Alpi Apuane, le Marittime, Piemonte e Liguria. E poi le prime spedizioni europee ed extraeuropee.
Una spedizione che ricordi come particolarmente significativa?
Una che può avere fatto la differenza è una dove non ho esplorato niente: nel 2005 ho partecipato alla prima ripetizione del -2000 in Abkhazia, una regione filorussa separatista della Georgia. Io e Giacomo Rossetti eravamo gli unici italiani di una spedizione internazionale organizzata dai russi, il capo spedizione era Denis Provalov. L'approccio era quasi militare, himalayano, una sessantina di persone con trasporto di moltissimo materiale, con molti campi. Io ero stato scelto per lavori di arrampicata sul fondo, ma poi c'è stato un incidente: un ragazzo su a -350 era rimasto incastrato in una fessura disagevole dopo essere caduto. I russi avevano messo in conto che una perdita umana era tutto sommato accettabile, ma io e Giacomo abbiamo convinto il capo spedizione a mollare l'obiettivo di proseguire e a salvarlo. Abbiamo disostruito la fessura, anche perché aveva una sospetta lesione spinale ed estrarlo sarebbe stato troppo pericoloso. È stato un viaggio a trecentosessanta gradi, anche perché siamo entrati nel Paese di nascosto, vista la situazione politica. Una vera avventura.
In arrampicata come hai proseguito?
A 17 anni avevo fatto la Via delle Guide al Crozzon di Brenta, da capocordata. Poi mi sono sbizzarrito con l'artificiale, ho bannato il trapano, ho continuato a fare cose con la curiosità e la deformazione della speleologia, non me la sento di definirmi alpinista. Il dry tooling per me è stata una scoperta: il ghiaccio classico non mi piaceva, lo vedevo come una sofferenza. Quando ho appreso che con attrezzi nuovi potevo fare passi di misto per salire delle strutture che mi interessavano...ho trovato la mia dimensione. In Val di Ledro avevo sceso il Rio Nero in una giornata di canyoning, avevo visto delle lingue di ghiaccio e sono andato lì per aprire delle vie nuove. Poi ho conosciuto Bubu (Bole, ndr), mi ha dato le sue piccozze. Ho iniziato con le gare: sono arrivato quarto all'italiano, nel 2005-06 ho fatto le prime gare del mondiale.
Il viaggio alpinistico che ricordi con maggiore piacere?
Le pareti che mi hanno dato di più, che sono diventate più mie, sono a São Tomé, nel Golfo di Guinea. Il Pico Cao Grande è una montagna basaltica che non era mai stata scalata. 360 metri su roccia spesso umida, con difficoltà logistiche, l'assenza di qualsiasi appoggio, la malaria endemica. Foresta, serpenti, c'erano i mamba. Un'altra montagna che mi ha stregato è stata la montagna senza vetta, quella con il buco, dove Patrick de Gayardon si era lanciato con la tuta alare. Io, Giacomo e Massimo Faletti l'abbiamo scalata partendo dal Sotano de las Golondrinas. Abbiamo scalato 500 metri, con uno strapiombo che usciva in fuori per 150 metri, forse il più grande che c'è.
Hai un occhio sicuramente particolare, che deriva dalla tua storia personale con la montagna. Cosa ti piace dell'alpinismo di oggi?
Non sopporto la massa in generale e impazzisco di entusiasmo per quelli che portano avanti qualcosa di veramente onesto e tecnicamente ineccepibile. Mi piacciono le vie stile Larcher, aperte così, senza trucchi, senza compromessi, sempre dal basso. Vie sportive senza progressione artificiale. Sottoscriverò la lettera di Larcher, è stato bravo a scriverla. L'apertura è un atto egoistico, bisogna chiedersi sempre cosa vai a togliere agli altri. Perché quello che fai va sempre a discapito di altri, anche di chi verrà in futuro e non bisogna dimenticarlo. E poi mi piacciono le vette inviolate. Ho letto del povero Tomas (Franchini, ndr), che ha fatto cose incredibili: ha aperto vie nuove da solo in posti straorrdinari, vere avventure.
Ami ancora l'artificiale?
Certe pareti non si possono salire in libera, non possono non commuovermi vedendo chi le sale con il rischio di lasciarci le penne, mettendo in gioco la propria vita. L'artificiale “nella bambagia” invece è obsoleta. È vendibile dal punto di vista pubblicitario, ma è roba buona solo per i social.
Anche sul dry tooling c'è da fare dei distinguo.
Il dry tooling senza utilizzare lo yaniro è onesto: nel DTS (acronimo di dry tooling style, ndr) non scendi a compromessi. Vai finché stai appeso, finché puoi contare sulle tue forze. Ma se invece incroci, al giorno d'oggi è come azzerare e ci sono pseudo atleti del dry tooling che sono per me discutibili, perché non lo dicono e giocano su questa ambiguità. Dichiarano lo stesso grado di difficoltà di una via gradata DTS pur sapendo di aver “barato”. Come se io scalassi un 8a azzerando: certo che avrei ripetuto la via, ma mai potrei dire di aver fatto un 8a! I social poi sono stati un amplificatore di questi comportamenti sbagliati: hanno falsato i reali valori in campo, dando voce a tutti senza che si possa capire veramente chi ha fatto cosa.
Personalmente, cosa ti piace fare oggi in montagna?
In Val Salarno ho un progetto per la difesa dell'arrampicata su granito. Ho aperto una ventina di itinerari - tutti a mano- fino al 7b, unico posto in Italia senza trapano. L'ho fatto per rispetto dei capolavori degli anni '80, grazie all'esempio di alcuni alpinisti. Ci sono linee molto belle, come Gotica: 56 spit a mano su 700 metri. Vie che ti regalano l'arrampicata con la “a” maiuscola.