Incontri d'alpinismo. Maurizio Oviglia: «Ci vuole un'etica per chiodare, anche in Sardegna»

L'alpinista torinese vive da 40 anni sull'isola e ha partecipato alla sua crescita in termni di possibilità per gli arrampicatori. «Ma le cose vanno fatte con misura, o si rischia di perdere la libertà guadagnata»
© K. Dell'Orto

Per chi ha arrampicato in Sardegna, il nome di Maurizio Oviglia (in copertina foto di Klaus Dell'Orto) facilmente si associa a una delle tante guide che l'alpinista torinese ha scritto riguardo alle innumerevoli possibilità di scalare sull'isola. E se in Sardegna i climber hanno così tanta scelta, è anche perché da una quarantina d'anni Maurizio ha chiodato senza sosta. Sempre con criterio, eppure si tratta di oltre 3mila tiri.

 

Dal Piemonte alla Sardegna, come ci sei finito?

Mi sono trasferito qui nel 1986 da Torino. Sono diplomato grafico e ho lavorato una decina di anni in tipografia, oggi sono editore. Ero stato qua nel 1984 per il servizio militare: io volevo andare a Novara e infatti...mi hanno spedito a Cagliari. Ho conosciuto mia moglie e quando sono tornato a Torino ho capito che non mi piaceva più stare dove stavo prima.

 

È stato amore a prima vista con l'isola?

In realtà io nasco come alpinista, ho vissuto i primi anni dell'arrampicata sportiva in Val di Susa. Ho iniziato a scalare lì e ho respirato l'aria di quegli anni. Ho conosciuto gente come Giancarlo Grassi, Giampiero Motti. Ho frequentato la Valle dell'Orco prima, e poi Finale Ligure. Mi sono formato così su un'idea di arrampicata sportiva che non era quella delle estreme difficoltà, di Arco come Spiaggia delle Lucertole, ma piuttosto sono rimasto colpito dal modello francese: l'arrampicata per tutti. Avevo visto a Briançon le palestre di arrampicata nelle scuole, i bambini a cui veniva insegnato a fare sicura. Erano già molto avanti in Francia e quando ho iniziato a chiodare in Sardegna avevo già un'idea di un'arrampicata volta al turismo, a valorizzare la meta. Ma fosse stato per me, per estrazione e sensibilità sarei stato molto più attratto dall'alpinismo, avrei voluto diventare guida alpina. Venendo in Sardegna ho dovuto rinunciare allo scialpinismo e ho fatto altro.

 

Sull'isola che consapevolezza si è formata in questi 40 anni riguardo al patrimonio d'arrampicata?

Qua nessuno sa ancora niente, o poco e in maniera confusa. Escursionismo, arrampicata, ferrate: per chi non pratica non c'è distinzione. Io sono stato uno dei primi, nel 1996, a chiodare per le amministrazioni, in Ogliastra. Erano tempi nei quali si stavano tracciando i primi sentieri per i turisti, per fare capire come tutto sia arrivato relativamente tardi. La mia prima falesia è stata Cala Fighera, a Cagliari. C'erano ancora i chiodi, che poi ho sostituito con gli spit. E c'era poco altro: al CAI c'era Bruno Poddesu, il primo arrampicatore sardo. Aveva iniziato negli anni '70, con i finanzieri di Predazzo, che avevano chiodato nel Supramonte. Io ho iniziato ad andare facendo le fughe dalla caserma, poi mi ricordo nel settembre del 1985 la prima ripetizione della via Mariacher a La Poltrona, a Cala Gonone. Erano davvero i primissimi anni. Nel 1986 siamo arrivati noi con i primi monotiri.

 

In chiodatura © T. Goex

 

Oggi come oggi anche in Sardegna si sentirebbe l'esigenza di regolamentare la scalata come in altri luoghi molto celebri e frequentati?

Qua c'è il problema dell'esplosione del turismo e non ci sono particolari restrizioni. Anche sull'ambientalismo, tanto per dire, come per la tutela degli uccelli che nidificano, siamo molto indietro, praticamente non esistono divieti. E arrivano molti scalatori dall'estero con intenti “bellicosi”. Vengono con la macchina piena di chiodi e vogliono trascorrere le vacanze così, a chiodare. Poi ci sono quelli che vanno in pensione e si comprano la casa qui, chiodano ovunque. Io sono dell'idea che se tiri troppo la corda alla fine perdi la libertà che avevi. In altri posti d'Europa c'è sicuramente più controllo. Qua alcuni comuni hanno fatto ordinanze che chiedono almeno che i chiodatori comunichino la loro attività, ma gli scalatori se ne fregano.

 

Tu, Piola e Larcher avete scritto una lettera sulla tutela delle aperture dal basso.

Io e Rolando da tempo eravamo su questa linea: anche qui ci sono alcuni professionisti che non si mettono nemmeno le scarpette per chiodare, si fa tutto con la corda dall'alto. È una cosa fuori dal mondo per chi è cresciuto con una educazione alpinistica. Io ho fatto due manuali e dei video per spiegare l'etica della chiodatura e sensibilizzare e devo dire che ho avuto anche riscontro. Ma molti giovani non sanno proprio nulla, è semplice ignoranza. E poi Piola si è voluto informare, mi ha chiesto delle vie che sono state aperte qua, perché in Francia c'è stata una vera e propria degenerazione. Da noi comunque c'è un legame con la tradizione e forse per quel motivo ci salviamo maggiormente. Se vai a fare Hotel Supramonte sai che ci sono una etica e una storia dietro. Noi vogliamo semplicemente che ci siano dei distinguo tra una cosa e l'altra.

 

In arrampicata


Anche nel mondo della comunicazione di settore ritieni che serva più chiarezza?

Sì. Io per esempio ho scritto una guida su vie sportive di più tiri e mi sono trovato a mettere i primi salitori, riportando l'indicazione se è stata aperta dall'alto o dal basso. Perché una via aperta dal basso segue una linea logica, sono informazioni utili per chi va a ripetere. Estremizzo: Dawn Wall è un'opera sportiva planetaria, forse la via più dura al mondo, ma quella linea non è il frutto della logica di uno scalatore che ha provato a farsi strada sulla parete, non integralmente per lo meno. Non ha il valore di una via di Royal Robbins.

 

Quali sono i luoghi della Sardegna che più ti sono rimasti nel cuore?

C'è da dire che ho avuto vari periodi, dal 2010 ho abbandonato l'alta difficoltà e negli ultimi anni mi sono dedicato soprattutto all'esplorazione delle scogliere. Un luogo che mi ha preso molto è stato Capo Pecora, mi sono dedicato alla sua valorizzazione. È un posto unico per la conformazione del granito, modellato dal vento, sembrano quasi prese di pareti artificiali. In altri contesti ho aperto vie in giro per il mondo e ne conservo un ricordo prezioso. È banale dire che i posti sono come i figli, però un po' è vero. Punta Pilocca per esempio è un altro luogo importante, lì ci andavamo a “rifugiare” negli anni '80. Ho avuto la fortuna di chiodare più di 3mila vie, ho davvero tanta roba nel cassetto dei ricordi.