Kilimangiaro - Foto di jmarti20 da Pixabay
Vetta del Kilimangiaro - Foto di Zeljko Mihic da Pixabay
Insediamenti in zona pedemontana - Foto di Squirrel_photos da Pixabay
Savana e Kilimangiaro - Foto di Julian Hacker da Pixabay
Foto di Jürgen Böhm da PixabayIl Kilimangiaro (5.895 m), la vetta più alta del continente africano, è un vero e proprio serbatoio di biodiversità. L'iconico vulcano tropicale dormiente della Tanzania ospita una flora eccezionale, ma dalle sue quote inferiori arrivano segnali allarmanti: nell'arco di un secolo la biodiversità vegetale risulta essersi ridotta del 75%.
La montagna è nota per la presenza di nevai e ghiacciai che sopravvivono a ridosso dell'Equatore, e come tale è fortemente minacciata dal cambiamento climatico. La superficie glaciale si è già ridotta a meno di un quarto della estensione di inizio Novecento, e i modelli prevedono la scomparsa totale dei ghiacci entro pochi decenni.
Tuttavia, la perdita di biodiversità vegetale che sta caratterizzando le fasce altitudinali più basse, non sarebbe da imputarsi in via esclusiva al fattore climatico. Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Plos One, la principale causa diretta del fenomeno è da ricercarsi nel cambio d’uso del suolo, frutto della crescente pressione antropica esercitata dall'uomo nel corso dell'ultimo secolo.
Il Parco Nazionale del Kilimangiaro e la “periferia” povera di biodiversità
Il Kilimangiaro è sede di un Parco Nazionale omonimo, istituito nel 1973 e riconosciuto come Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1987. All’interno dell’area protetta ricadono le zone poste alle quote più elevate. Inizialmente ricadevano entro i suoi confini le aree che si estendono oltre il limite degli alberi (circa 2.700 m) ma dal 2005 è stata inclusa nel Parco anche la cintura di foreste che delimita la zona apicale, fungendo da zona cuscinetto tra le aree sommitali incontaminate e le pendici inferiori, caratterizzate da una maggiore e crescente presenza e interferenza umana.
Si tratta dunque di una montagna che funge da perfetto caso studio per approfondire gli effetti della pressione antropica su ambienti, quali quelli tropicali, profondamente minacciati dal cambiamento climatico. Un team internazionale di ricercatori ha cercato, nel dettaglio, di verificare quale tra i due fattori risulti più determinante nella dinamica di progressivo impoverimento della biodiversità, cui si è assistito nell’ultimo secolo alle quote più basse.
Lo studio ha coinvolto un'area di circa 3.000 chilometri quadrati di estensione, alla “periferia” del Parco Nazionale, ovvero a quote inferiori rispetto all'attuale confine dell'area protetta. Attraverso l’analisi di mappe storiche, censimenti della popolazione, immagini satellitari e dati ricavati da rilievi in campo focalizzati sulle circa 3.000 specie vegetali presenti negli ecosistemi del Kilimangiaro, i ricercatori hanno ricostruito i cambi d'uso del suolo e la contemporanea variazione in termini di biodiversità locale, verificatisi tra il 1911 e il 2022.
L'analisi dei dati ha evidenziato che dagli inizi del Novecento agli anni Duemila, l'area oggetto di studio sia stata interessata da una progressiva espansione urbana, agricola e del pascolo, che hanno profondamente alterato gli ambienti originari. Insediamenti umani, coltivi e pascoli hanno fatto la loro comparsa laddove un tempo si estendevano savana e foreste, di cui oggi rimangono pochi scampoli, portando nell'arco di poco più di un secolo a perdere circa il 75% delle specie vegetali naturali per chilometro quadrato. Tra queste, anche molte piante utilizzate nella medicina tradizionale, caratteristiche degli ambienti di savana. In conseguenza del cambio di uso del suolo e correlata progressiva scomparsa di specie autoctone, è l'espandersi di specie invasive.
Si può dunque concludere che, tra il 1911 e il 2022, il cambiamento di uso del suolo abbia rappresentato la causa primaria della riduzione della biodiversità vegetale alle quote inferiori. A favorire la trasformazione del territorio è stato il verificarsi di una rapida crescita demografica ed economica. Tra il 1913 e il 2022 la densità di popolazione è infatti balzata da 30 a 430 persone per chilometro quadrato.
Lo studio scagiona per una volta il cambiamento climatico che, seppure agente sulla zona, non rappresenta la principale causa diretta della perdita di biodiversità vegetale. “Il nostro studio dimostra che il motore principale del declino della biodiversità sul Kilimangiaro è l’espansione umana, non il clima", dichiara Andreas Hemp, autore principale e coordinatore del progetto, che ha visto il sostegno della Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG).
Come mitigare i danni
Le conclusioni dello studio possono fungere da supporto per orientare future politiche di conservazione della biodiversità. Per mitigare i danni da cambio di uso del suolo, il team identifica come potenziali strategie di successo da seguire l’agroforestazione tradizionale sostenibile, pratica già implementata in alcune località nella zona per riconvertire terreni degradati, accanto alla istituzione e gestione delle aree protette, fondamentale per la salvaguardia degli habitat.
All'interno dell'area di studio ricadono infatti tre riserve forestali ma, come riportato dai ricercatori, anche queste aree subiscono le conseguenze della trasformazione degli ambienti del Kilimangiaro: “solo la foresta di Rau è rimasta in gran parte intatta, mentre le altre rischiano la quasi totale distruzione, evidenziando l'importanza di una gestione efficace della conservazione per mitigare gli effetti negativi della crescita demografica sulla biodiversità”.
Benessere ecologico e umano non sono dunque da concepire come fattori necessariamente in conflitto tra loro. Vi è la possibilità di raggiungere un equilibrio, e in questo gioco di cooperazione risulta importante il ruolo delle comunità locali che, puntando su una gestione sostenibile delle risorse, possono contribuire attivamente nell'invertire il trend di impoverimento della biodiversità locale.