“La Endurance non era adeguata alla missione”: il mito di Shackleton sotto una nuova luce

Una nuova analisi sul relitto della nave ribalta la leggenda dell’eroica spedizione antartica. Se Shackleton sapeva che la sua nave non avrebbe resistito ai ghiacci, quanto del suo destino fu davvero una fatalità?

La storia di Ernest Shackleton e della sua leggendaria spedizione nei mari antartici si arricchisce di un nuovo capitolo. Una ricerca appena pubblicata sulla rivista Polar Record Journal da Jukka Tuhkuri, professore di meccanica dei solidi alla Aalto University, mette in discussione uno dei miti più radicati dell’epopea esplorativa del primo Novecento: quello della Endurance, la nave “più resistente del suo tempo”, vittima di un fatale incidente imprevedibile.

Secondo l’analisi di Tuhkuri, la verità sarebbe molto diversa. La Endurance presentava infatti numerosi difetti strutturali e Shackleton ne era perfettamente consapevole.

L’Endurance avrebbe dovuto portare Shackleton e i suoi uomini fino alla baia di Vahsel, nel punto più meridionale del mare di Weddell, da cui partire per la prima traversata integrale del continente antartico. Ma la nave rimase imprigionata nella banchisa nel gennaio 1915 e, dopo mesi di agonia tra i ghiacci, affondò a novembre.

Da quell’istante cominciò la leggenda: l’eroica sopravvivenza dell’equipaggio, il viaggio disperato di Shackleton su una scialuppa per oltre 1600 chilometri fino alla Georgia del Sud, e il salvataggio finale dei 28 uomini. La Endurance fu ricordata come simbolo di resistenza e ingegno umano, affondata non per difetti costruttivi ma per una tragica fatalità: la rottura del timone.

 

L'analisi del relitto

Nel 2022, grazie alla spedizione Endurance22, il relitto della nave è stato ritrovato intatto a oltre tremila metri di profondità nel mare di Weddell. Tuhkuri, che partecipava alla missione, ha colto l’occasione per studiarne la struttura. L’analisi dei materiali e dei disegni costruttivi ha svelato dettagli inediti: “Le travi del ponte e le costole erano più deboli del previsto, il compartimento macchine troppo lungo e mancavano rinforzi diagonali essenziali” spiega il professore. “In pratica, la nave era meno robusta di altre usate per le spedizioni polari e non avrebbe mai potuto resistere alle pressioni del ghiaccio”.

Non solo: esaminando i diari e le lettere private di Shackleton, Tuhkuri ha scoperto che il comandante era consapevole di questi limiti. In una lettera alla moglie confessava di preferire la nave della sua spedizione precedente, la Nimrod, considerata più affidabile.

Perché allora Shackleton accettò di partire comunque? “Possiamo solo ipotizzare che ci fossero pressioni economiche o vincoli di tempo” osserva Tuhkuri. “Ma è chiaro che non si trattò solo di sfortuna: la Endurance non era adeguata alla missione”.

Il nuovo studio non toglie nulla all’eroismo dell’equipaggio, ma aggiunge complessità alla figura del suo comandante. L’immagine romantica dell’esploratore tradito dal destino lascia spazio a quella di un uomo che, pur conoscendo i rischi, decise comunque di sfidare le probabilità.