La montagna sacra. Intervista a Enrico Camanni

Storia di una provocazione e di lotte ambientaliste, per riflettere sul rapporto fra gli esseri umani e la natura, indagando il concetto di limite, su cui si fonda il nuovo paradigma culturale.

“No” è la parola più difficile da imparare per ogni genitore, perché significa dover imporre un limite a chi nasce senza volerne nessuno. “No” è il fondamento di tante battaglie civili che negando affermano ciò che ritengono più giusto. “No” è insomma il modo più rapido per dire “non puoi”, anzi, “non devi”. Di solito è un’imposizione, ma può diventare una scelta consapevole, se l’obiettivo è importante. Di questo parla il libro di Enrico Camanni, La montagna sacra (pp. 182, 19 euro, Laterza 2024), annunciato allo Scarpone in occasione della riedizione della Notte del Cervino (a proposito di romanzi, il prossimo riporterà in libreria il commissario Settembrini).

Chiaramente vi si ripercorre la storia di un progetto culturale che ha molto fatto discutere, quello di proclamare il Monveso di Forzo (3322 metri) “montagna sacra” del Parco Nazionale del Gran Paradiso, di cui nel 2022 si è celebrato il centenario. Un’idea “rivoluzionaria”, si legge, mai realizzata in Occidente, promossa fin dal 2020 dall’attivista Toni Farina e dallo zoologo Antonio Mingozzi, rispettivamente consigliere e direttore uscenti del Parco. Camanni fa parte del comitato promotore, ma al manifesto, presentato nel settembre 2021, hanno aderito molti illustri alpinisti, come Alessandro Gogna, Hervé Barmasse, Fausto De Stefani, Kurt Diemberger, o personaggi del calibro di Riccardo Carnovalini, Luca Mercalli, Paolo Rumiz, Paolo Cognetti, Giovanni Storti, Lella Costa, Giuseppe Cederna, per dirne alcuni.

Per spiegare le ragioni di questa iniziativa Camanni scrive però un compendio di tante battaglie ambientaliste, individuando negli anni ’70 il momento in cui l’ottimismo cieco in un progresso senza fine inizia a incrinarsi. Il discorso è incentrato sulla montagna, ma ne scaturiscono riflessioni valide per ogni quota. 

I molti brevi capitoli, che si possono anche leggere separatamente, arrivano ai giorni nostri, ripercorrendo questioni ancora aperte, come la costruzione di nuovi impianti nel vallone delle Cime Bianche, al Tonale, al Monte San Primo, o della pista da bob a Cortina. Vi si arriva, tuttavia, avendo acquisito una prospettiva storica utile a capire che il mondo non è un oggetto di nostra proprietà, ma un tutto di cui facciamo parte. 

Enrico Camanni, foto dell'autore.

Enrico Camanni, il libro parla di come si è evoluto il nostro approccio alla montagna, sintetizzando decenni di lotte ambientaliste, frutto di una sensibilità che cambia a partire dagli anni ‘70. Che parole assoceresti alle varie fasi? 

La prima parola è “conquista”, non a caso si usavano termini di guerra. Poi è subentrata la “tutela”, la salvaguardia, che era al centro delle battaglie ambientaliste degli anni ’70 e in montagna soprattutto negli anni ’80. Non ci rendevamo conto che stavamo distruggendo tutto allora, perché erano gli anni dello sviluppo entusiastico, dell’ottimismo. Pochissimi si ponevano l’interrogativo, anche le polemiche suscitate dalla pubblicazione del libro I limiti dello sviluppo del Club di Roma riguardarono una piccola fetta della popolazione. Subentrando la problematica del clima, che non spazza via il resto, ma si aggiunge, “tutela” diventa un concetto fuorviante: chi non dovrebbe volersi tutelare? Ma non è più questione di tutelare noi o l’insetto, ma di difendere un insieme. Per questo la parola di oggi potrebbe essere “equilibrio” o “limite”, una parola fuori moda, anche se noi per primi siamo esseri limitati e facciamo parte di un ecosistema a sua volta limitato: non possiamo spingerci oltre l’asservimento della Terra.

Limite è la parola chiave di tutto il libro, quella che sottende al progetto della “montagna sacra”, e insieme a riconversione e condivisione per te rappresenta una nuova categoria di pensiero per un nuovo paradigma culturale.

Senza porci un limite non riusciamo a fare né la condivisione, né la riconversione. È la parola forse più antipatica, forse la meno naturale, però mi sembra una premessa determinante. Riconversione è conversione, quindi cambiare atteggiamento, cambiare sguardo. Partecipazione perché bisogna costruire comunità, che si può fare anche in città, perché ovviamente non è che sia un problema solo della montagna.

Che rapporto c’è tra sacro e limite?

Sacro inteso in maniera non confessionale significa accettare che ci sono cose più grandi di noi, che noi non dominiamo e non comprendiamo nemmeno, forse. Ormai dal punto di vista geografico abbiamo scoperto tutto, o quasi, l’esplorazione diventerà sempre più una cosa interiore. La sfida dei prossimi anni sarà invece quella di rispettare altri equilibri e avere un rapporto diverso con la natura e con noi stessi. Sacro significa ammettere che non possiamo conoscere tutto e dunque che possiamo rispettare la natura a prescindere. Questo sarebbe un grande passo avanti dal punto di vista culturale. La montagna sacra è un simbolo particolarmente visibile, ma potrebbe essere anche un lago o una foresta.

Scrivi che il sacro è un grande tabù della società occidentale di oggi.

Non voglio fare il teologo, però secondo me siamo una società desacralizzata che tende a dissacrare tutto, rendendo tutto fruibile, tutto a portata. Questo ci toglie molto fascino, perché banalizza ogni cosa e ci fa credere che sia tutto programmabile e garantito. È la società securitaria dove sembra che nessuno si possa mai fare male, senza contare che c’è un margine enorme di imprevedibilità e mistero. Non possiamo ignorarlo. Dobbiamo recuperare il sacro in questo senso, non necessariamente religioso, ci aiuterebbe ad aprire nuovi orizzonti in un mondo che avvertiamo ormai come piccolo.

L’Olimpo era sacro perché abitato dagli dèi, ora sacro diventa il monte dove l’uomo non va. Ma può davvero esistere una natura senza uomo? L’antropocentrismo non è imprescindibile?

Secondo me sì. Senza di noi la natura esisterebbe ugualmente, anzi, non si accorgerebbe nemmeno della nostra scomparsa. Oggi l’uomo è super presente, è l’essere che giudica, che conquista, che distrugge, oppure preserva, ma è anche un pezzo del meccanismo e dovrebbe imparare a spostare lo sguardo. Vedersi come una parte del tutto senza illuderci che possiamo governare tutto è per me il concetto nuovo.

La “montagna sacra” ha sollevato polemiche trasversali, anche da parte degli stessi valligiani, questo libro è per loro?

Volevo innanzitutto inquadrare il tema, poi si può essere o meno d’accordo. Non cambieremo il mondo se non andiamo sul Monveso di Forzo, ma era necessario che fossero chiari i termini della questione. Innanzitutto, che in ballo non è il sacro della religione, cosa che ha creato un sacco di fraintendimenti, nemmeno delle religioni orientali, che non ci appartengono culturalmente, non c’è nessun Machapuchare, è una provocazione in cui non ha nemmeno importanza il concetto di cima, ma quello di un pezzo di mondo dove scegliamo di non mettere piede. Magari ci ritroveremo ogni anno sotto, ci conosciamo, ci parliamo, facciamo partire un percorso da questa immagine.

Non rischiate di innescare così gli stessi meccanismi distorti del turismo di massa, di cui molto si parla nel libro?

Sì, ma ancora non ci abbiamo provato e comunque finora ci segue solo la valle di Forzo, dove il sindaco di Ronco Canavese Lorenzo Giacomino, un ragazzo molto preparato, ci sta accompagnando reputando la cosa interessante e non dannosa, metterà anche delle bacheche, mentre a Cogne il dialogo deve ancora partire. Qualcuno del posto pensa che vogliamo andare là a bloccare le loro montagne, ma io non vedo grandi problemi, sono posti dove si continuerà a praticare alpinismo o arrampicata anche senza salire sul Monveso di Forzo, posti che magari diventeranno famosi anche perché ospitano una montagna dove non si può salire. Sicuramente c’entrano le resistenze verso tutto ciò che proviene dalla città in quanto tale. Ho visto spesso questo antagonismo da campanile, ma sarebbe ora di cambiare, perché le differenze culturali fra cittadini e montanari sono ormai minime.

Non sarebbe bastato chiedere l'istituzione di una riserva naturale integrale?

Non avrebbe avuto lo stesso valore simbolico. Ho aderito a questa idea, che non è stata mia, perché trovo il messaggio più chiaro: nelle riserve integrali che ci sono in Engadina, o in Val Grande, nessuno tocca niente, ma la gente non capisce bene il senso di non togliere l’albero se cade.

Il cambiamento culturale che invochi avviene quando si toccano i grandi numeri, da dove si deve partire?

I grandi numeri li cambiano i giovani, non i vecchi. Se i giovani non hanno voglia di fare e consapevolezza il mondo rimane uguale. Oggi è diffusa l’eco-ansia, siamo preoccupati per il riscaldamento climatico, non sappiamo se i nostri figli vedranno ancora un ghiacciaio, ma è una prospettiva egoistica e riduttiva, il problema è molto più ampio e riguarda l’equilibrio del sistema mondo. Per questo bisogna partire dal limite. In parte sta già succedendo: i giovani, per esempio, sono molto meno attaccati all’automobile di quanto fossimo noi, per cui quello era il simbolo di libertà e di potere per eccellenza. Un cambiamento è partito, fin dai tempi di Greta Thunberg, qualcosa si è inceppato, ma il mondo cambia anche se pensiamo che non sia così.

Parli molto del CAI, citando battaglie come quella contro la funivia delle Cime Bianche o la pista di bob di Cortina, citi anche il Presidente Generale Montani durante l’ultimo Congresso sulla “Montagna nell’era del cambiamento climatico”, nel novembre 2023 a Roma, a cui hai partecipato. Che ruolo può avere un’associazione come il CAI?

Credo che il CAI non sia mai stato importante come adesso. Il lavoro più significativo che può fare è quello di rieducazione, di riconversione, che credo complicato, per il diverso grado di sensibilità e preparazione degli oltre 300.000 soci. Ma nell’ambito della montagna ben pochi possono fare questo lavoro. Più che portare la gente in montagna credo che sarebbe importante insegnare come farlo, con un’azione capillare che in parte il CAI sta già facendo.

Siamo pronti a darci un limite?

Secondo me sì, siamo ormai perfettamente consapevoli. 30 anni fa era un discorso di élite, oggi tutti sanno e non ci sono più scuse. È naturale avere delle resistenze di fronte alla rinuncia, però a volte ci costerebbe poco. Sta ai giovani lanciare la sfida con i loro comportamenti, più che attraverso l’analisi. Del resto, la scienza è stata chiara: abbiamo ancora 10, 20 anni. O agiamo adesso, o ce ne freghiamo e vediamo cosa succede.

Qualche buon esempio c’è già?

Lo sci, di cui parlo molto, ha raggiunto la sua maturità e deve essere sostenuto solo dove può funzionare: va bene quindi aggiornare gli impianti obsoleti, ma non si deve costruire più. La montagna ha raggiunto il massimo livello di sfruttamento possibile a livello ambientale, mentre da un punto di vista culturale e sociale i territori più interessanti sono quelli di mezzo, più liberi da modelli statici: in Appennino c’è più dinamicità delle Alpi. È una questione di cultura e di modelli: con 100 maestri di sci fai fatica a inventarti altre attività. L’invenzione di altri mondi non avviene da un giorno all’altro, ma avviene quando il modello non è più sostenibile anche da un punto di vista economico. Sta già succedendo, se perfino il CIO, non proprio un’associazione ambientalista, ha suggerito di fare la pista di bob a St. Moritz. Lo dice perché non conviene se poi deve andare a finire come l’altra volta, 20 anni fa non si sarebbero permessi di dare un simile consiglio. 

Sostenibilità è ciò che metterà d’accordo economia e ambientalismo?

La sostenibilità economica è fondamentale. Credo di aver dimostrato abbastanza che oggi questa economia residuale non è più fatta per portare la gente in vacanza a sciare, ma solo per i super ricchi, per un pubblico che viene da lontano, arriva in elicottero e non sa nemmeno dove si trova. Questa non è più economia utile alla società, è nefasta.