La penna a sfera, un'invenzione che arriva (anche) dalla Valle d'Aosta

Il 29 luglio 1914 nasceva a Torino Marcel Bich, l'imprenditore francese che definì e commercializzò la penna a sfera come la conosciamo oggi. Ma, come tutti i Bich, la sua famiglia veniva dalla Valle d'Aosta.
Marcel Bich

Ogni volta che prendete in mano una Bic, pensate che dentro a quel tubicino in plastica lungo 13,5 centimetri, poco meno di un segnavia bianco e rosso, scorre sangue valdostano. Se infatti l’inventore ufficiale della penna a sfera fu l’ungherese Lazslo Biro, che la brevettò nel 1938, è Marcel Bich a metterla davvero a punto e soprattutto a trasformarne la vendita in un impero. E Marcel Bich, nato a Torino il 29 luglio 1914, veniva dalla Valle d’Aosta, dove tutt’oggi risiedono, e da dove eventualmente partono, tutti i Bich del mondo.

 

Dalla Toscana con furore

Tutti i Bich vengono da Valtournanche o da Châtillon”, conferma orgogliosamente Luca Bich, che in questi giorni è impegnato con il Cervino Cine Mountain, il festival cinematografico che dirige insieme a Luisa Montrosset. Ma in realtà le vere origini di questo cognome vanno cercate in Toscana: la leggenda che si tramanda da generazioni vuole che nel 1370 una certa famiglia Bicchi dovette fuggire da Siena nel contesto della tremenda lotta fra guelfi e ghibellini, la stessa che molti anni prima aveva portato all’esilio di Dante. Cosa trovare di meglio, per nascondersi dai nemici della fazione Peruzzi, di una zona remota e isolata come Valtournanche, ai piedi del Cervino, inaccessibile montagna all’epoca di nessun interesse? E così i Bicchi finirono lì, dove si parlava francese, cambiarono il nome in Bich o Bic, pur sempre facendo pronunciare il proprio nome con la “c” sorda. Pare invece che nel 1497, ad America già scoperta, un lontano avo di nome Antonio (anzi, Antoine) decise di spostarsi di una ventina di chilometri stabilendosi a Châtillon, appunto, dove con il tempo la famiglia Bich riuscì ad affermarsi e fare fortuna, in particolare grazie a Pantaléon (1720-1801) che intuì e realizzò il business delle miniere, oltre che dedicarsi al tessile, all’agricoltura e alla poesia

Il primo barone Bich fu suo nipote Emmanuel, medico con la passione dell’agricoltura in prospettiva farmaceutica, che si trasferì però ad Aosta, dove morì nel 1866, nella gloria cittadina. Il titolo nobiliare gli fu conferito nel 1841 da Carlo Alberto, re di Sardegna e futuro re d’Italia, per i suoi meriti di medico e sindaco di Aosta.

Suo figlio è il Claude Bich che fu presidente della sezione CAI di Aosta e, insieme all’abate Amé Gorret, pubblicò la Guide de la Vallée d’Aoste nel 1877, destinata ad alpinisti e turisti, colmando parecchie lacune sulle montagne della regione e strappando agli inglesi l’appannaggio esclusivo di conoscenza sul tema.

 

Un uomo… di punta

Marcel invece nacque a Torino il 29 luglio 1914. A 9 anni si trasferì a Madrid con la famiglia, per le ambizioni imprenditoriali di suo padre Mario, ingegnere minerario, che tuttavia non ebbe fortuna e dovette ripiegare in Francia nel 1925, improvvisandosi agricoltore in un paesino della Turenna, antica provincia francese situata nel bacino della Loira. Ma fallì anche quel tentativo e la famiglia si spostò nuovamente nei dintorni di Parigi, nel 1930, in condizioni economiche ormai precarie. Marcel non potè quindi di certo iscriversi all’università, costretto invece a contribuire al bilancio famigliare quanto prima. Fece consegne a domicilio, poi vendette lampade e insegne luminose. Ma era convinto che sarebbe diventato un re Mida, una fabbrica di denaro, un money maker e la storia gli diede ragione, in una maniera del tutto inaspettata, con un oggetto in cui lui per primo inizialmente non credette affatto. Si convinse solo in seguito che invece quella piccola invenzione sarebbe stata la sua gallina dalle uova d’oro.

Il piglio imprenditoriale e l’eclettismo non mancavano tradizionalmente alla famiglia Bich, di certo non mancò a Marcel, che, come si legge nella biografia che ha scritto sua moglie Laurence dopo la sua morte (Le baron Bich, uscita in Francia nel 2001, ma non tradotta in Italia), si è sempre sentito un predestinato. “Un uomo di punta”, per riprendere il sagace sottotitolo dell’opera, fin da sempre: perché Bich pare che etimologicamente sia da ricondurre a un posto “prominente”, nel senso proprio che “spunta”, che “svetta”, e non a caso, forse, esiste sul Monte Bianco, sotto l’Aiguille Noire de Peutérey, una Pointe Bich, 3746 metri di quota, che Enrico Augusto chiamò così in ricordo di Edoardo Bich, una guida di Valtournanche, morto il 13 maggio 1923 alla Becca d’Aran (2952 m), oppure forse anche per ricordare un’altra guida di Valtournenche, Jean-Baptiste Bich, che con Emile Rey e Lord Wentworth fu uno dei primi salitori della Noire.

 

Un'ivenzione rivoluzionaria

László József Bíró, un ungherese espatriato in Argentina, inventò e brevettò nel 1938 la penna a sfera, ispirandosi – secondo diverse narrazioni – alla traccia di fango che lasciavano sulla strada le biglie dei bambini, proprio come se stessero scrivendo su un foglio. L’idea più probabilmente, come in realtà lui stesso disse, gli venne osservando come funzionavano i macchinari della tipografia che stampava il giornale per cui lavorava, e pensando a come sarebbe stato bello potersi servire della stessa “tecnologia” a uso privato. La Pelikan con cui scriveva i suoi pezzi gli dava infatti parecchie seccature. Realizzare quell’idea geniale non fu affatto semplice e richiese fiumi di denaro, migrazioni oltreoceano (Biro era ebreo e in tempi di leggi razziali dovette unire l’utile al dilettevole, per così dire, stabilendosi in Argentina dove vivevano i suoi finanziatori, conosciuti però in patria), e parecchi tentativi. La storia completa si legge nel bel libro, un po' saggio e un po' romanzo, di Giulio Levi, La straordinaria storia della penna a sfera (Diarkos 2021).

Anche quando la Birome, come si chiamava la penna a sfera messa a punto e commercializzata dal suo inventore, era già stata comprata da migliaia di persone, aveva però ancora parecchi difetti: macchiava, si inceppava, costava troppo. 

Fu proprio Marcel Bich a risolvere questi problemi: mise a punto un nuovo involucro, di plastica leggera e più economica, ottagonale così non scivolava, e con un foro che consentiva di mantenere la stessa pressione atmosferica dell’esterno, trasparente per vedere il livello dell’inchiostro, e riuscì a raggiungere l’estrema precisione necessaria perché il meccanismo della sfera dentro alla punta metallica non si inceppasse. Commercializzò nel 1950 quella “meraviglia” con il nome di Bic Cristal

I problemi legali che sul momento gli valsero un processo per violazione brevetto furono risolti prima con un accordo commerciale con chi gestiva per conto di Biro quel brevetto, poi con l’acquisizione dell’azienda che quel brevetto lo deteneva, nel 1953. Non fu facile imporre comunque la nuova penna a ogni livello: il Ministero della Pubblica Istruzione francese autorizzò l’uso per gli studenti solo nel 1965, fra le proteste dei vecchi insegnanti, ancorati all’utilizzo della stilografica. E dalle aule, passò alle case, agli uffici, alle banche, in Francia e in tutto il mondo. 

Quando ormai si stava per annoiare, Bich si inventò l’accendino a gas (973) e il rasoio (1976), settore in cui andò a scalzare e infastidire la fino ad allora incontrastata Gillette, tutto rigorosamente usa e getta. L’impero Bic non aveva più confini: si espanse in tutto il mondo, diventando simbolo dell’usa e getta. Un successo enorme, tranne che per un prodotto: il profumo in piccole bottigliette da vendere in supermercati o tabaccherie (1990).

La sera Marcel leggeva le Sacre Scritture e i classici, nel tempo libero partecipava alle regate di Coppa America, ma dopo cinque regate capì che non ne avrebbe retta un'altra e passò al golf. Le barche a vela ovviamente non solo le guidava, ma le costruiva, come pure i campi da golf. Marcel fu uno che nelle cose ci entrava dentro, le faceva sue, senza mai accontentarsi di utilizzarle da spettatore. 

Morì a Parigi il 30 maggio 1994.

 

Un appassionato valdostano

Nel suo libro, la vedova di Marcel definisce il marito “un appassionato valdostano”. Anche se in quella piccola regione da dove veniva la sua famiglia non abitò mai, mantenne un forte legame con la sua terra d’origine, tanto che nel 1983 acquistò il Castello di Ussel, incastonato su uno sperone di roccia che domina Châtillon e la valle della Dora. 

Costruito a metà del Trecento da Ebalo II di Challant, è il primo esempio in Valle d’Aosta di castello monoblocco: un parallelepipedo massiccio, senza cortili interni né costruzioni accessorie, pensato per affermare potere più che per accogliere vita. Per secoli fu simbolo di autorità, poi venne dimenticato. Dopo la morte dell’ultimo Challant, nel Quattrocento, passò di mano in mano, diventò caserma, prigione, rudere. Alla fine del Novecento era poco più che uno scheletro affascinante, irraggiungibile e chiuso, spoglio di tetti e solai, stretto tra i rovi e la pietra nuda. 

È così che lo prese Bich, con l’intenzione di strapparlo dal decadimento che sembrava inesorabile, e restituirlo alla gente, come bene comune da non dimenticare, simbolo di un passato in cui tutta la vallata era cosparsa, come ancora si vede, da castelli e fortificazioni costruite su speroni rocciosi più o meno elevati. Donò l’edificio alla Regione Valle d’Aosta alla sola condizione che fosse restaurato e reso accessibile al pubblico.

Il castello fu riaperto nel 1998, dopo il restauro durato un decennio e condotto nel rispetto del carattere austero della struttura, di cui è stata mantenuta intatta l’identità di rovina nobile. Da allora è diventato uno spazio culturale: ospita mostre temporanee, eventi, rievocazioni. 

 

Il legame con la “madrepatria” valdostana

Esistono oggi diverse comunità valdostane in Francia, con cui la “madre patria” mantiene un forte legame come racconta Luca Bich: “A inizio ‘900 parecchi valdostani sono emigrati in Francia, inclusa la mia famiglia. Mia mamma era quella francese perché già nata là, mio nonno lo conobbe quando emigrò. All’epoca, gli anni ’20, bastava arrivare in stazione a Parigi e dire di essere valdostani per essere portati in un certo quartiere, dove si trovavano tutti gli altri”. Parliamo di un secolo fa, eppure quel passato è ancora vivo e presente nella memoria della gente di oggi: “C’è una fortissima comunità valdostana nei dintorni di Parigi, nella zona di Gennevilliers per esempio, che ancora oggi, a gennaio, i politici valdostani incontrano in occasione della festa dell’Arbre de Noël”. Una tradizione nata nel 1923, quando gli émigrés decisero di riunirsi durante le festività per rendere più sopportabile, nello starsi vicini, la nostalgia di casa, “mu de meison” in patois. 

Non solo. Non esiste più il Secrétariat valdôtain, associazione che negli anni ’20 assisteva chi migrava a trovare casa e lavoro in Francia, ma anche a non perdere il legame con la madrepatria valdostana e in particolare con la conoscenza del patois, ma la sua missione è stata raccolta dalla Maison du Val d’Aoste, uno spazio culturale che ha promosso l’artigianato, la storia e le tradizioni e che, dopo la chiusura nel 2021, continua ad animare diverse iniziative legate all’Arbre de Noël di Parigi. E annualmente in agosto si tiene un incontro estivo che accoglie gli emigranti valdostani e i loro discendenti per le vacanze: la 49° Rencontre valdôtaine si terrà il prossimo 3 agosto a Saint Nicolas.

 

Una curiosità… da nulla

Qualcuno avrà forse notato che ogni tanto la acca compare e scompare da quel cognome: Bich, Bic, è una variante che si trova anche in Valle d’Aosta. A livello mondiale Marcel non potè mantenerla, per il semplice fatto che in lingue come il francese o l’inglese la sua presenza induce una pronuncia che porta a pronunce imbarazzanti. Eppure, nello stupore del nostro Luca Bich ricordato all’inizio, che come Marcel arriva dai Bicchi di Siena, la biografia francese conserva quella acca finale. Mario, il padre di Marcel, aveva ottenuto che i figli venissero naturalizzati francesi nel 1930. E da allora la Francia accolse i Bich con e senza acca, evidentemente, tanto più quando loro la resero grande nel mondo grazie a un tubicino di plastica e a una pallina di metallo.