Articolo a cura di Oreste Verrini
Foto Cristina Tinti
Foto Cristina Tinti
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In montagna si va per faticare. Si va per superare i propri limiti. Si va per stare in mezzo alla natura, come spesso è solito dire chi vive per lo più in città e apprezza una giornata di aria “buona” e di silenzio. Si va per raggiungere la vetta, contare quelle che si sono raggiunte e quelle che mancano, per confrontare minuti e pendenze, accessori e calzature. Si va perché a volte, in compagnia è bello raccontarla un po’ “grossa” e smagrire i tempi e le durate. Si sa, lo si fa in molte cose e così lo si fa pure parlando di montagna. Si va perché a volte i cartelli con le indicazioni rincuorano, non perché ci si è persi e vedendoli si spera di ritrovare la strada, magari anche quello certo, ma soprattutto perché ci fanno sentire bravi e veloci oppure indispettiscono, quando passato il tempo indicato, ancora non si è arrivati. E poi ce ne sono sicuramente altri di motivi e perché no, sarebbe pure bello un giorno contarli tutti o quasi e vedere cosa viene fuori. Stilare un bell’elenco di questi motivi, fare una classifica, raggrupparli per categorie se possibile e una volta fatto buttare tutto, che tanto l’importante è che, con educazione e rispetto, in montagna si vada sempre.
Sono certo sia la mancanza di ossigeno a spingere i miei pensieri verso queste conclusioni raffazzonate, buttate lì tanto per distrarmi mentre le gambe gemono, il respiro si fa grosso e la salita, per quanto possa vedere, non accenna a diminuire e nemmeno a finire in un bel pianoro, di quelli che aprendosi sulla valle ti fanno dimenticare i borbottii e le male parole che più di una volta sono salite alla gola, permettendoti di vedere la valle sotto, l’orizzonte lontano e le tante montagne che di fronte o di lato, occupano la vista invogliandoti a scendere per poi iniziare una nuovo ascesa.
È la salita al Monte Fosco, vetta di 1680 metri dell’Appennino Tosco Emiliano, a mettermi in difficoltà, forse perché sono salito baldanzoso, certo di percorrerla rapidamente e invece è stata lei, la salita o la montagna se preferite, a farmi rallentare prima e a piegarmi sulle ginocchia poi. Che mica devo aver vergogna nel dirlo o sentirmi meno bravo o meno capace. Piegato sulle ginocchia, con la mano destra che cerca sostegno a un bel faggio slanciato e sbeffeggiante, ma potrebbe essere frutto della carenza di ossigeno, mi divido tra considerazioni sconclusionate e l’inizio della tappa, fatta più per sgranchirsi un po’ dopo giorni pigri, che per misurarsi. Dal passo del Cirone, raggiunto con la macchina ora parcheggiata nello spiazzo in territorio emiliano, siamo saliti rapidi alla chiesetta della Madonna dell’Orsaro, luogo suggestivo e seppure moderno, la sua fondazione risale al terzo anno del nuovo secolo, ricco di richiami antichi e forza. Il suo interno è arricchito dalle opere dello scultore pontremolese Luciano Preti e poterle vedere, invece di immaginarle, farebbe una gran differenza. Ancora una volta rifletto dispiaciuto di quanto si perda nel trovare le porte di un luogo di culto chiuse, non solo per chi ha fede e professa, ma per tutti quanti. I motivi perché non accada ci sono e sono, non ho dubbi, ragionevoli e giusti. Con altrettanta sicurezza mi chiedo però quanto una società incapace di rispettare quei luoghi che per motivi differenti raccontano la storia possa dirsi davvero meritevole e attenta.
Dalla chiesa proseguiamo lungo il sentiero 00 in un’ascesa quasi continua, prima nel bosco poi nel bel mezzo di prati (Prati e Bocchetta del Tavola – 1466 m. slm), accompagnati dal galoppo libero dei cavalli al pascolo. È stata forse la prima volta, se ce ne sono state altre il ricordo è ormai sbiadito nel tempo, in cui ho visto galoppare un cavallo senza alcun cavaliere in groppa impegnato a spronarlo. È stata un’immagine polarizzante: più il cavallo prendeva velocità più mi immobilizzavo, colpito da tanta eleganza e fierezza, consapevole, forse per davvero, di quanta bellezza struggente conviva negli animali, anche quelli a cui la nostra vista è più abituata. E poi, subito dopo ho ripensato a quando, improvviso e folgorante, abbiamo visto sbucare dal fitto del bosco un cervo al galoppo; la sua traiettoria, perpendicolare alla nostra, ha intercettato il sentiero pochi metri più avanti, non molti meno di dieci. Vederlo comparire, rapidissimo nonostante la mole, balzare nella strada con un solo salto e scomparire con un secondo senza curarsi di noi, è stato un momento talmente appagante e al contempo così emozionante da lasciarci immobili per più di qualche momento. Solo dopo attimi di assoluto silenzio sono partiti gli inevitabili "hai visto?", "stupendo", "ma che salto ha fatto?" e così via fino a quando le emozioni più forti sono scemate e il controllo sui pensieri ha ripreso il sopravvento.
Lasciata la piacevole compagnia del faggio del quale solo in questo momento invidio l’apparente immobilità, muovendo un primo passo incerto torno ai pensieri sconclusionati, quelli dell’inizio, certo di vedere oltre l’ultimo sbarramento arboreo la cima del Monte Fosco. Che fosse una pia illusione lo realizzo immediatamente, ad un primo sbarramento ne segue un secondo e forse un terzo. I tornanti fatti per spezzare affanno e pendenza si fanno sempre più vicini e così, smosso da quel movimento ipnotico, mi dico che tra le tante motivazioni ne manca una, importante, almeno credo perché senza riuscire a definirla non è facile misurarla. Ma sono certo sia importante, quel senso di incompiutezza di ragionamento ronza in testa come un insetto attirato dal sudore. A portare chiarezza è la vetta, la cima del Monte Fosco, un piccolo spazio pietroso affacciato sulla Lunigiana, come se emergere dal chiaroscuro del bosco catalizzasse infine la mia attenzione e, uniti i tanti indizi sparsi nella mente, definisse l’ultimo e di gran lunga più importate motivo per cui si va in montagna o per lo meno, per cui io vado in montagna.
È talmente evidente, il motivo, che fatico a capire come possa averlo dimenticato per tutto il tempo camminato fino a qui e prevede quel sentimento difficile da definire e irregimentare in una frase che è il sentirsi parte di un qualcosa, che noi occidentali abbiamo definito natura, che è più grande di noi, talmente grande da farci sentire piccoli e spesso tanto insignificanti. È una bellissima sensazione, totalizzante ma difficile da toccare, serve immergersi nel cammino con disposizione d’animo e attenzione, però una volta raggiunta è come se ci si sentisse accettati, parte di un mondo conosciuto e al contempo alieno. Trovare le parole non è semplice, non lo è mai quando è il corpo ancor prima della mente a recepire emozioni, quasi le traspirasse dall’ambiente e non mi meraviglierebbe affatto fosse così, e a trasmettere un senso di benessere che avvolge e completa. Lo scrive bene Franco Faggiani nel suo Verso la libertà con un bagaglio leggero, Aboca Editore, quando dice «una positiva sensazione che un lungo cammino mi consente di provare è quella della fusione profonda con l’ambiente circostante, avere idea di farne davvero parte, di non essere un corpo estraneo invadente di cui liberarsi al più presto » e io non posso che provare ad aggiungere del mio ricordando come in una società sempre più individualista – dove ogni persona viene spinta dai social, dalla pubblicità e dalle convenzioni più o meno sociali, a perseguire la solitudine come eccellenza e come completamento di sé, a realizzarsi grazie alle proprie forze, lottare contro tutti per affermarsi, eccellere sopra ogni altro, essere considerato il migliore, e a vedere queste come alcune delle aspettative con cui ogni giorno confrontarsi – aspirare e sentirsi parte di un gruppo, è certamente una eccezione, gradita e importate ma pur sempre eccezione. Necessaria però, perché tornare a essere parte di un sistema ampio che necessiti di relazioni per funzionare al meglio, di supporto per avanzare nelle difficoltà, di organizzazione per affrontare le sfide che la vita propone, dovrebbe diventare la nostra priorità. Non più sfruttamento ma gestione oculata dei beni comuni, avendo ben presente la loro importanza e le necessità che si preservino per le generazioni future. Me lo sussurrano gli alberi facendomi sentire ben accetto, non solo perché stanco posso appoggiarmi a loro, ma perché sembrano indicare la via, proteggere e creare, per quanto possibile, un ambiente dal quale ricaviamo sensazioni di benessere non altrettanto riscontrabili in un ambiente urbano. Lo realizzo lasciando che il vento canti le proprie canzoni, predisponendomi all’ascolto con il giusto stato d’animo. Non c’è, concentrato nel camminare, nell’ascoltare e nel guardare, un ostacolo insuperabile, non una stonatura o un elemento fuori posto. Quella che noi chiamiamo natura sembra parlarci, raccontarci di un mondo diverso da quello che abbiamo creato negli ultimi secoli, un mondo all’interno del quale potremmo vivere riducendo al massimo il nostro impatto e anzi, prendendocene cura, come siamo soliti fare per i nostri giardini. Ecco, proprio la stessa cura dovremmo avere, come se ogni pezzo di terra ci appartenesse e un contratto, di quelli che tanto piacciono alla società moderna, ci obbligasse a garantirne il buon uso e la conservazione. Un discorso ampio me ne rendo conto, non certo risolvibile da una persona sola che però mi tiene compagnia per tutta la discesa fino alla Foce del Fosco (1620 m. slm) raggiunta la quale, invece di proseguire per il sentiero 00, deviamo per tornare indietro completando l’escursione con un giro ad anello che ci porta a passare per I ronchi di Luciano (1530 m. slm) con il sentiero sempre in discesa per poi mettersi in piano e fiancheggiare il Monte Fosco fino ricongiungersi con lo 00 all’altezza della Bocchetta del Tavola.
Un discorso che dovrebbe raggiungere un numero sempre maggiore di ascoltatori; un futuro che potremmo sognare e pian piano creare, difficile certo ma forse, con la volontà di molti, non impossibile. E con un pensiero, per una volta almeno, non troppo pessimista, passando di nuovo a fianco della chiesa della Madonna dell’Orsaro, e guardando macigni giovani che sembrano antichi un piccolo sorriso sale alle labbra, rapido quasi quanto l’escursione di oggi.