
Nell'alpinismo conta più il lavoro o il talento? La domanda non ha una risposta semplice, ma non per questo smette di essere attuale e interessare chi si approccia a una disciplina tanto varia. Eros Grazioli ha provato a rispondere con il libro Oltre il limite, nel quale ha intervistato dodici fuoriclasse, tra i quali Simon Messner, Simone Moro, Kilian Jornet Burgada e Manolo, per cercare di capire quale sia il minimo comun denominatore del loro successo.
Durante l'Italian Outdoor Festival di Milano l'allenatore di alcuni di questi atleti ha parlato con noi del talento che ha intravisto nella sua attività con gli alpinisti e di come il lavoro si vada a inserire in questo percorso verso il raggiungimento dei risultati. “L'amore è il punto di partenza, perché se ami davvero una attività ti fai un po' da parte e capisci che per ottenere dei risultati devi riuscire a non mettere al centro te stesso, ma quello che vuoi fare. Come si può combinare con la vita e la famiglia? Non è semplice, ma un equilibrio va trovato se non si vuole perdere tutto, a meno che non ci sia certezza assoluta che basti lo sport a renderci pienamente soddisfatti”.
Detto questo, il sacrificio non rimane solo una parola, ma qualcosa che va implementato nella vita dell'atleta fino a farne una necessità. “Serve una rivoluzione, nel senso pieno di volgersi da un'altra parte e accettare di guardare le cose secondo un'altra prospettiva. I grandi atleti hanno abbracciato questo approccio differente”. Il sacrificio serve a spostare il limite più in là. “Essere, fare, avere. Ai miei atleti dico sempre che questo è un climax. Prima bisogna avere la convinzione, quindi mettersi in moto per riuscirci, dove mettersi in moto significa magari mettere diecimila ore di lavoro. Solo alla fine si può arrivare al risultato, a ottenere qualcosa”.
La volontà trova terreno fertile dove c'è sentimento, che è una base solida. Poi c'è la fatica. “I miei atleti hanno un rapporto imprescindibile con la fatica, vogliono fare fatica. C'è dipendenza ormonale, è una questione di biochimica. È un passaggio obbligatorio. E fare fatica è legato all'errore, alla capacità di non rimanere amareggiati quando si sbaglia. Nella nostra società perdoniamo tutti gli errori ai bambini, non agli adulti. E invece agli atleti di questo libro non interessa sbagliare, reagiscono molto bene agli insuccessi”. Grazioli passa in rassegna le qualità dei grandi alpinisti. “Una tra quelle fondamentali è la semplicità, intesa come la capacità di togliere il superfluo. Quando sei a 7mila metri di quota non puoi permetterti il lusso di agire in maniera non essenziale. Non è un caso che Simone Moro o Tamara Lunger siano eccellenti in questo”.
Ma i grandi atleti pensano in grande? Non necessariamente. “Non bisogna fare l'errore di pensare troppo in grande. Ognuno ha un talento, chi più o chi meno. L'importante è riuscire a lavorare su quello che è un poco più avanti rispetto ai propri limiti, in modo da andare più in là, in quella zona inesplorata di noi stessi. Ancora ai tempi della Grecia, l'eroe non era quello che riusciva a fare grandi cose, ma quello che partiva per farle. Poi magari non tornava, ma a quel punto la cosa non interessava già nessuno. L'importante era mettersi dentro una sfida”.
Ai propri atleti, Grazioli impone anche la gratificazione. “Non bisogna spostare più in alto un obiettivo subito dopo il suo raggiungimento o addirittura durante lo sforzo. La nostra macchina ha bisogno di registrare il successo ottenuto e di premiarsi, è fondamentale per andare avanti”. E quando il risultato non viene raggiunto? “Lì bisogna essere davvero forti. Torniamo all'alpinismo. Avere la forza di rinunciare a meno di mille metri dalla cima di un Ottomila, quando hai gli sponsor che magari ti hanno dato 100.000 euro per portare a casa il risultato, non è affatto facile. Bisogna essere molto centrati”.
Se tutti gli atleti seguiti da Grazioli hanno dei tratti in comune che li rendono particolarmente inclini al lavoro, non mancano le differenze. “Io con loro ho lavorato soprattutto sul potenziamento come parte integrante dell'allenamento. Poi ci sono atleti come Simone Moro che sono già molto formati anche mentalmente, non serve lavorare tanto su quell'aspetto”. A volte un buon allenatore deve anche essere capace di vincere alcune resistenze. “Tamara all'inizio non voleva venire in pista, non ne vedeva l'utilità. Ma poi ha capito che riuscire a lavorare su come mettere il piede a terra poteva essere importante. Come allenatore devi riuscire però a entrare in un set mentale che è già molto strutturato”. Tra gli intervistati del libro anche Maurizio Zanolla, alias Manolo. “Non è uno facile, non ti lascia entrare nel suo mondo subito. Ma quando riesci a vedere nel profondo dei suoi occhi azzurri, ti apre un mondo nuovo”. E poi ci sono atleti che non hanno dovuto lavorare anche sul contesto familiare per sbloccare il proprio potenziale. “Simon Messner fino a 13-14 anni non ne voleva sapere niente di alpinismo, all'inizio era un peso, qualcosa che lo opprimeva. Ma quando è riuscito a uscire dal confronto con il padre si è sbloccato e ora è addirittura in simbiosi”.
E in conclusione, cosa ne pensano gli atleti stessi del rapporto tra talento e lavoro? Chi, tra i lettori, teme di non avere possibilità di riuscita, può invece stare tranquillo. “Quasi tutti gli atleti che ho intervistato concordano nel dire che conta molto più il lavoro rispetto al talento, con percentuali altissime in favore del lavoro stesso”.