“Le montagne sono state una terapia”, Omar Di Felice racconta il ritorno in sella dopo l’incidente

A 3 mesi dall'incidente avvenuto sul Passo Gardena, Omar ci racconta come ha vissuto lo stop forzato e quanto la possibilità di stare tra le montagne di casa abbia favorito il suo recupero psico-fisico.

Il 6 luglio scorso, l’atleta di ultracycling Omar Di Felice, si trovava a vivere quello che avrebbe definito a posteriori, “l’incidente più spaventoso della mia carriera”. Una caduta a oltre 60 kmh nella discesa del Passo Gardena, terminata con un atterraggio di testa fuori strada, che avrebbe potuto avere conseguenze ben più gravi, se non fosse stato per la protezione offerta dal casco. “Ma il verdetto è impietoso”, scriveva a poche ore dall’accaduto, immobilizzato in un letto d’ospedale di Brunico, con 4 fratture vertebrali (due cervicali, C1 e C7, e due dorsali, D1 e D5) oltre a forti contusioni e una emorragia cerebrale con diversi punti di sutura. Un dolore fisico ma anche morale quello vissuto dall’atleta romano, costretto ad abbandonare i programmi dei mesi a venire, per concentrarsi su una nuova sfida inattesa: alcune settimane di totale immobilizzazione, seguite da una progressiva e cauta ripresa dell’attività fisica, per consentire alle fratture di consolidarsi adeguatamente. Una vera e propria maratona di pazienza.

Ma si sa, la tenacia è un fattore di cui Di Felice non ha mai mostrato carenza. E stupendo il suo pubblico di affezionati – e nel profondo, anche un po’ se stesso – agli inizi di ottobre è volato in Sardegna per tornare in sella, prendendo parte alla Ultrabiking Sardinia, competizione di 1000 km e 20.000 m di dislivello no stop, terminata con una vittoria che rappresenta, simbolicamente, un nuovo inizio. A pochi giorni dal rientro sulle Alpi, abbiamo chiesto a Omar di raccontarci in prima persona come ha vissuto lo stop forzato e quanto la possibilità di stare tra le montagne di casa abbia favorito un recupero non solo fisico ma anche mentale, permettendogli di rimettersi in sesto in un tempo record.

 

Dopo il grave incidente di luglio, la vittoria all'Ultrabiking Sardinia ha rappresentato il tuo ritorno alle gare al termine di una lunga e dura pausa. A parte il risultato sportivo, che sapore ha avuto questa vittoria a livello umano e personale? Con quale sensazione sei tornato a casa?

Come risultato sportivo, diciamo che non si tratta certamente di una vittoria che porta a una svolta nel mio curriculum agonistico. Ma a livello simbolico potremmo dire che valga un +3 o +4. C'è la presenza di un moltiplicatore che ancora fatico a realizzare. Ripercorrendo gli eventi, sono caduto nel momento migliore dell’anno, soprattutto nel momento migliore della mia carriera. Ho vissuto una caduta tremenda, in una giornata di allenamento facile, nulla di particolarmente impegnativo a livello ciclistico, e comunque ho rischiato la vita. La cosa paradossale cui ho pensato, è che ho girato i posti più strani, più remoti, più difficili, più rischiosi del Pianeta, e poi torno a casa e rischio di restare su una sedia a rotelle – un rischio concreto – facendo un giro semplice in Dolomiti. Non vorrei definirlo come scherzo del destino, perché ci credo molto poco, ma posso dirvi che il verificarsi dell’incidente, in quel preciso momento, mi ha portato a dover rimettere tutto nella giusta proporzione. Stavo per partire, per affrontare una gara molto importante in Europa, la Transcontinental. Quest’inverno avevo in programma una grande avventura delle mie. E di colpo ho dovuto bloccare ogni piano, mi sono trovato a un nuovo bivio. 

 

Ti sei sentito fortunato?

Mi sono sentito fortunato, questo è stato davvero il primo sentimento provato, da parte mia ma anche di tutte le persone intorno a me, a partire dai medici, che mi hanno detto chiaramente di non pensare ad altro se non al fatto di essere stato fortunato, e di mettermi comodo perché la ripresa sarebbe stata lunga. “Se ne riparla il prossimo anno”, questa è la cosa che mi veniva ripetuta. Mi sono salvato da un infortunio che, per pochi millimetri, non mi ha lasciato tetraplegico e, non avendo mai vissuto un incidente così grave nella mia carriera, mi sono trovato ad affrontare un qualcosa di nuovo. Sono abituato a fronteggiare difficoltà lungo il mio percorso, cadute sia fisiche che emotive, ma non mi era mai capitata una situazione così grande. Incidenti di questa portata spesso segnano la carriera di un atleta, quindi mi sono trovato da zero a dover gestire un qualcosa che non sapevo come gestire. 

 

Non è facile immaginare Omar Di Felice costretto a stare fermo…

Mi sono ritrovato improvvisamente di fronte a una lista di “questo lo puoi fare”, “questo non lo puoi fare assolutamente”, “questo provaci ma stai attento”. E mi è toccato districarmi tra queste indicazioni, dandomi un obiettivo. Perché, se non mi fossi posto, fin dal primo momento, un obiettivo di rientro, starei forse ancora tribolando tra paure e incertezze. E non parliamo di un obiettivo vago. Il 7 luglio, il giorno dopo l’incidente, ero in ospedale a Brunico quando ho ricevuto un messaggio dall’organizzatore della Ultrabiking Sardinia, per augurarmi una buona convalescenza e guarigione da parte di tutto lo staff. Gli ho risposto d’istinto, sapendo che la gara sarebbe stata a ottobre, "ti ringrazio ma ti chiedo una cosa in più, per favore tienimi uno slot di iscrizione, perché se si riesce a compiere il miracolo voglio ripartire da lì”. E mi sono sentito rispondere che le porte sarebbero sempre state aperte per me e di concentrarmi sul mio recupero.

 

Il 7 luglio eri già convinto di poterti rimettere in sesto per ottobre?

In realtà no, in quel momento ho scritto di getto. Non avevo alcuna certezza di potercela fare. Poi nei giorni successivi ho sottoposto l’idea al mio coach, Fabio Vedana, per valutare insieme la fattibilità del mio ritorno in gara, a soli 3 mesi di distanza dall’infortunio. E lui mi ha risposto di considerarlo un obiettivo, confermandomi che il pensare di avere un traguardo alla fine del percorso di ripresa, avrebbe potuto aiutarmi nel vivere una quotidianità, decisamente diversa dal solito.

 

Ci descrivi questa nuova, difficile, quotidianità, che ti sei trovato ad affrontare nei mesi estivi?

Giornate infinite, soprattutto nella fase iniziale della convalescenza. Sono passato dal fare centinaia di chilometri a settimana di allenamento, migliaia di chilometri tra viaggi e gare, al restare bloccato sul divano, con il collo che faceva un male assurdo. C’erano giorni in cui non riuscivo a dormire la notte, e quotidianamente mi chiedevo come arrivare a fine giornata, nel senso quale fosse l’obiettivo della giornata. La gara in Sardegna mi è servita per questa ragione. 

 

Sei partito già con l’intento di provare a vincere?

No, in realtà mentre la data della partenza per la Sardegna si avvicinava, ho iniziato a pensare che sarei stato già grato solo per il fatto di esserci, possibilmente di tagliare il traguardo. Però, tocca ammetterlo, un atleta che parte per fare una gara, anche se si trova nelle sue peggiori condizioni psico-fisiche, sogna nel profondo di poter ottenere il miglior risultato possibile. Quindi un po’ l’idea della vittoria, in maniera molto remota, in testa ce l’avevo. Diciamo che era lì, come un sogno, che rimettevo in un cassetto, tornando con i piedi per terra. Obiettivamente avevo fatto solo 5 settimane di allenamento.

 

Quanto tempo sei rimasto immobilizzato?

Nel dettaglio, quasi 2 mesi. Dopo le prime 3 settimane circa, ho iniziato a fare lunghe passeggiate, elettrostimolazione. Ho poi iniziato a pedalare sui rulli, sempre però con il collare e la schiena immobilizzata, senza poter fare sforzi eccessivi, con la bici settata col manubrio alto, non potendo piegare la testa. Rispetto alla mia attività solita, posso dire di aver fatto un po’ di fitness per tenermi in forma, come chi fa il risveglio muscolare al mattino (ride). Quando ho ripreso la bici, mi sono sfogato.

 

“Mi sono sfogato” non promette bene, sei ripartito da 0 a 100?

(ride) Il medico mi ha detto “Puoi risalire in sella, pedala con moderazione”. Ho chiesto cosa intendesse con “moderazione”, sperando che, con approccio scientifico, potesse quantificarmela in termini di ore e fatica. Perché la mia moderazione può essere anche un giorno intero! E lui mi ha sottolineato che l’essenziale era non cadere sulla frattura e non fare sforzi esagerati, soprattutto perché rischiavo che si consolidasse male. Per cui nel mese di settembre ho fatto tanta fisioterapia, tanti rulli in casa. A volte andavo a pedalare su strada e poi interrompevo e tornavo sui rulli, per stare più tranquillo. Appena ho potuto, sono ripartito con la spinta data dall’adrenalina, investendo tutte le mie energie per cercare di tornare in forma il prima possibile. E c’è stato l’effetto rebound. Ho fatto il tipico errore che capita di fare quando sei rimasto chiuso dentro casa a lungo e ti riaprono la porta. Un po’ l’ho pagata, tanto che gli ultimi giorni di settembre ho cominciato a dire dentro di me, ma anche a voce alta, che forse in Sardegna sarebbe stato meglio andarci in vacanza e non con l’intento di fare la gara. Ero stanco, non mi sentivo nelle condizioni ideali per gareggiare. Poi mi sono fatto forza e Fabio mi ha consigliato "Parti, vedi dove puoi arrivare e metti il punto”. Alla fine la gara è andata in maniera completamente diversa dalle aspettative degli ultimi giorni.

 

Con quale pensiero hai iniziato la gara e quando ti sei reso conto che, a dispetto delle aspettative, ti trovassi nelle condizioni giuste per tentare la vittoria?

Io di solito non ho l’ansia prima di una gara, ormai ho alle spalle abbastanza esperienze da dormire tranquillo alla vigilia di una partenza. In questo caso sono arrivato in Sardegna con un po’ di tensione ma fortunatamente la notte precedente la gara ho dormito tranquillo come un bambino, dalle 21 alle 5, per cui mi sono svegliato con un mood positivo. La partenza è stata emozionante, come capita quando ti ritrovi a passare da sogno a realtà. Mi sono sentito come un leone in gabbia che viene liberato nella savana, sono tornato nel mio habitat. Le prime 10 ore le ho affrontate, non dico come se non avessi percepito la fatica, ma davvero sereno, godendomi il paesaggio e rendendomi conto di stare molto meglio del previsto.

Nel cuore della prima notte, ho realizzato di aver completato metà gara, i primi 500 km, in classifica stavo posizionato bene, quindi mi sono detto "dimentica l’incidente, stai in ottima forma, dormi un’ora e mezza e quando ti svegli, fai i conti e vedi dove puoi arrivare”. Quando mi sono svegliato, ho visto che gli altri atleti nelle prime posizioni stavano faticando, per cui sono partito motivato e ho affrontato i restanti 500 km al meglio che potevo. Quando ho raggiunto il ciclista che era al comando, mi sono detto “ora si va a vincere la gara”. E così il sogno è diventato davvero realtà. All’arrivo, dentro di me, ho provato una esplosione di emozioni. 

 

Essere a Bormio, tra le montagne di casa, ha avuto un effetto promovente sulla tua ripresa?

Assolutamente sì. Posso dirti che in ospedale ho avuto una degenza veloce. Una volta esclusa da parte del neurochirurgo la necessità di operazioni, mi hanno dato la possibilità di scegliere tra restare immobile lì o immobile a casa. A quel punto potevo scegliere tra Roma e Bormio. Nell’opzione Roma erano da considerarsi due controindicazioni: un viaggio molto più lungo, circa 10 ore da Brunico (contro 4 e mezza per Bormio) e il caldo e caos, che mi avrebbero fatto sentire oppresso. La mia scelta, senza pensarci troppo, è stata di tornare a Bormio e devo dire che stare nel mio ambiente, fermo ma con la possibilità di vedere le montagne da casa, aprire la porta e respirare l’aria della montagna, passeggiare senza sentire, come prima cosa, il rumore delle macchine ma il suono del vento, degli uccelli, ha fatto davvero la differenza. 

Purtroppo spesso si pensa che la guarigione sia una questione prettamente fisica. Ti mettono il collare, sai che devi tenerlo per un tot di settimane, dopodiché lo togli e magicamente torni alla vita normale. Non è così. La guarigione è un processo lungo, che ha una sua componente fisica, ma può essere molto agevolato dalla componente emotiva e mentale. Un approccio positivo, ottimistico, in cui ti contorni di cose che ti fanno stare bene, ti aiuta a superare anche il dolore fisico. Personalmente posso dirvi di non essermi trovato nella necessità di usare gli antidolorifici, che mi erano stati consegnati per affrontare le fasi più acute della convalescenza. Stare qui a Bormio ha rappresentato una terapia aggiunta. Dal punto di vista psicologico, essere tra le montagne di casa ha fatto la differenza, sia mentre ero bloccato sul divano sia quando sono tornato in bici, perché un conto è tornare in bici nel traffico, e un conto è poterlo fare sullo Stelvio, all’alba, quando l’unica persona che può capitare di incontrare è il malgaro che sale col furgoncino. 

 

Guardando al futuro, ci accennavi a una grande avventura in programma per l’inverno, che hai dovuto mettere da parte. Che programmi hai per i prossimi mesi e più a lungo termine? Ti vedremo tornare ad affrontare sfide estreme?

Avevo in programma un'avventura estrema, che non vi posso rivelare al momento, in un luogo molto freddo, in cui dunque avrei dovuto affrontare temperature rigide e condizioni di isolamento elevate. Nonostante la mia ripresa, ho deciso di rimandare il proposito di 12 mesi, perché non sono adeguatamente allenato e comunque ancora non mi riprendo totalmente. Ho problemi a dormire sul materasso ortopedico, figuriamoci a dormire in tenda su sassi e neve. Mi sento però fiducioso sul poterla affrontare tra un anno. Fortunatamente l’incidente non mi ha lasciato conseguenze che possano impedirmi di farcela. Ovviamente l’inverno è la mia stagione preferita, quindi non posso pensare di stare fermo! Sto cercando una nuova sfida da affrontare nella seconda metà dell’inverno 2025/2026, senza scegliere una meta troppo remota ed estrema in termini termici. Alle spalle ho la traversata dell’Himalaya con l’arrivo in Tibet dello scorso anno, per cui vorrei scegliere una avventura che mi consenta di dare continuità a quello che considero un mio progetto di lungo termine, ovvero attraversare nel corso della mia carriera le catene montuose più importanti del mondo.