Le vette della Sierra Nevada stanno perdendo ghiacciai millenari

In Sierra Nevada si sta assistendo a una progressiva scomparsa di ghiacciai che esistono e resistono tra le vette californiane, fin dall'arrivo dell'uomo in America.

La progressiva e accelerata fusione glaciale, cui si sta assistendo negli ultimi decenni, secondo i modelli predittivi, potrebbe comportare entro il 2100 una significativa riduzione nel numero dei ghiacciai su scala globale, con una perdita stimata del 25-50% della massa glaciale totale, con alcune aree ad alto rischio, quali le Alpi, laddove i ghiacciai potrebbero scomparire totalmente. 

La scienza ci insegna che i ghiacciai terrestri abbiano alle spalle una storia dinamica, fatta di periodi glaciali e interglaciali, di fasi dunque di espansione e di ritiro. E anche nel corso di un periodo interglaciale, caratterizzato da un innalzamento medio delle temperature rispetto al precedente periodo glaciale, i ghiacciai non restano immutati. Possono infatti modificarsi dimensionalmente, in funzione di oscillazioni del clima. È possibile, soprattutto nel caso di ghiacciai piccoli e posizionati ad altitudini o latitudini più basse, assistere a temporanee scomparse e successive ricomparse.

Sapere che un ghiacciaio, che si sta dissolvendo sotto i nostri occhi, sia già sparito in un passato “recente” per il nostro Pianeta, potrebbe forse consentire di sentire meno il peso del ruolo rivestito dall’essere umano nel promuovere il cambiamento climatico. Ma la scienza continua a confermare che il periodo storico che ci troviamo ad affrontare, non trovi paragoni, almeno negli ultimi 11.700. 

Un articolo di recente pubblicazione sulla rivista scientifica Science Advances, riporta il caso di alcuni dei principali ghiacciai della Sierra Nevada, che non sarebbero di fatto mai scomparsi nel corso dell’Olocene. Risultati che evidenziano quanto la potenziale deglaciazione totale della Sierra Nevada, prevista da alcuni modelli entro il 2100, potrebbe rappresentare una prima volta dall'inizio dell'ultimo interglaciale.

 

I ghiacciai millenari della Sierra Nevada

I ghiacciai degli Stati Uniti occidentali, al pari di quelli alpini, si prevede che possano scomparire entro il 2100. Ma la loro persistenza durante tutto l’Olocene, è stata a lungo oggetto di dibattito. Analisi realizzate in Nord America su morene glaciali e sedimenti lacustri in bacini a valle dei corpi glaciali, hanno portato a ipotizzare che i ghiacciai si siano ridotti significativamente, fino in alcuni casi a scomparire, all’inizio dell’Olocene, per poi espandersi nel tardo Olocene, a partire da circa 3.000 anni fa, in risposta a una fase di raffreddamento del clima.

Per verificare tale tesi, i ricercatori si sono concentrati nell’analisi delle rocce, esposte dal progressivo ritiro glaciale, su alcuni ghiacciai della Sierra Nevada, entro i confini del Parco Nazionale di Yosemite: Conness, Maclure e East Lyell, ovvero la porzione orientale del ghiacciaio Lyell, suddivisosi in due corpi a fine Ottocento, ormai più correttamente da definirsi glacionevato. Secondo alcune stime, l’East Lyell avrebbe perso, nell’arco di poco più di un secolo, circa il 95% della sua massa. Per comprendere l'entià della sua riduzione, basti pensare che fino agli anni Sessanta del secolo scorso, il Lyell, ancora integro, rappresentasse il ghiacciaio più grande di Yosemite

Un aneddoto, riguardante quest'ultimo i ghiacciai Lyell e Maclure, vede come protagonista il naturalista John Muir che, nel 1872, provò ad effettuare delle misurazioni della velocità di scorrimento del Maclure, a supporto della tesi che le valli di Yosemite fossero state disegnate dai movimenti dei ghiacciai. Posizionò quindi dei pali di legno, a disegnare una ipotetica linea sulla superficie del ghiacciaio. Dopo 47 giorni, si rese conto che questi fossero stati trasportati verso valle a una velocità di 2 centimetri e mezzo al giorno. 140 anni più tardi, alcuni ricercatori hanno ripetuto l'esperimento, sul Maclure e anche sul Lyell, confermando la velocità di scorrimento del primo e osservando che il secondo fosse invece immobile. Il ghiacciaio un tempo più grande di Yosemite è dunque oggi già un non ghiacciaio, ma neanche la condizione del Maclure appare rosea. La sua alta velocità di scorrimento, secondo gli scienziati, potrebbe essere favorita dall'effetto lubrificante dell'acqua di fusione, che favorisce lo scivolamento del ghiaccio sul substrato roccioso.

Per ricostruire le variazioni dei ghiacciai della Sierra Nevada durante l'Olocene, è stata analizzata nelle rocce emerse ai margini dei ghiacciai, la presenza di isotopi come il Carbonio 14 e il berillio 10, nuclidi cosmogenici che, in termini molto semplificati, consentono di determinare per quanto tempo una roccia o un'area di terreno siano rimaste esposta ai raggi cosmici. Le concentrazioni degli isotopi presenti nelle rocce proglaciali, possono dunque essere messe in relazione, mediante applicazione di modelli avanzati, all'estensione dei ghiacciai

L’analisi della concentrazione dei nuclidi ha portato i ricercatori a concludere che i più grandi ghiacciai della Sierra Nevada, come il Conness e Maclure, siano “sopravvissuti” a tutto l’Olocene, grazie alla copertura detritica che li caratterizza, in grado di schermare il ghiaccio dalla radiazione solare. 

L'ormai glacionevato East Lyell ha invece portato a una seconda conclusione, contraria alle tesi finora sostenute, ovvero che la sua espansione sia iniziata circa 7.000 anni fa, anticipando la “neoglaciazione” stimata attorno a 3.000 anni fa, che avrebbe portato i ghiacciai statunitensi a raggiungere le massime dimensioni, prima dell’avvento dell’era industriale. 

Sulla base di tali dati, risulta evidente, come riportato dai ricercatori, che “una futura Sierra Nevada libera dai ghiacciai è senza precedenti nella storia umana”, dove per storia umana è da intendersi l’arrivo dell’uomo nelle Americhe, che si stima sia avvenuto circa 20.000 anni fa.

"Ciò significa che quando questi ghiacciai si estingueranno, saremo i primi esseri umani a vedere le cime libere dai ghiacci a Yosemite", il malinconico commento di Andrew Jones, ricercatore presso l'Università del Wisconsin e primo autore dello studio.