Matteo Righetto: "Serve una nuova spiritualità dell’alpinismo"

Scrittore e presidente del CAI di Livinallongo - Colle Santa Lucia , in questa intervista Righetto racconta la sua idea di montagna come spazio di spiritualità e responsabilità. Tra letteratura, ecologia e memoria, ci invita a riscoprire la lentezza, l’ascolto e la sacralità del paesaggio alpino.

Scrittore, insegnante e profondo conoscitore dell’anima delle montagne, Matteo Righetto è una delle voci più autentiche e riconoscibili della narrativa italiana contemporanea. Nato a Padova ma da sempre legato alle Dolomiti, dove oggi vive a Colle Santa Lucia, Righetto ha costruito un universo narrativo in cui la montagna non è semplice scenario, ma protagonista viva, sacra e fragile.

Autore di romanzi come La pelle dell’orso (TEA, 2013), La stanza delle mele (Feltrinelli, 2022) e Il sentiero selvatico (Feltrinelli, 2024), Righetto indaga il rapporto profondo tra uomo e natura, tra memoria e modernità, tra radici e frontiere. La sua scrittura poetica ma concreta, visionaria e insieme ancorata alla terra, porta con sé una forte urgenza civile e ambientale.

Oltre all’attività letteraria, Righetto è presidente della sezione CAI di Livinallongo - Colle Santa Lucia, dove si impegna nella tutela del territorio e nella sensibilizzazione ecologica. Nelle sue parole, la montagna diventa luogo di incontro, di spiritualità e di riflessione: non un parco giochi, ma uno spazio sacro da abitare con rispetto e consapevolezza.

In questa conversazione, Matteo ci accompagna dentro il suo mondo, tra ricordi d’infanzia, riflessioni sull’alpinismo contemporaneo, amore per la lentezza e la natura, e la forza di un impegno che unisce letteratura e responsabilità ambientale.

 

Matteo, perdonaci il gioco di parole. Chi è Matteo?
Io sono fondamentalmente un narratore di storie. Ma sono anche il presidente della sezione CAI di Livinallongo, e come presidente ho la responsabilità, insieme a tutti i soci, di rappresentare un territorio perennemente sotto attacco. Parlo di attacchi economici, aziendalistici, umani: overtourism, impianti, caroselli... cose assurde. Ma siamo anche sotto attacco del riscaldamento globale, perché le montagne soffrono molto di più di quanto molti pensano. Ci sono crolli sempre più frequenti, il bostrico che adesso sembra aver mollato la presa ma dal 2018 a oggi è stato devastante, la tempesta Vaia, la Marmolada con la sua ferita aperta che si vede ancora. Ora c’è più neve, sì, ma la ferita è lì, e in futuro se ne vedranno sempre di più.

 

Questi sono anche i temi che in qualche modo cerchi di toccare con i tuoi libri… oggi forse più di prima
Sì, la mia attenzione per il tema è cresciuta, e continua a crescere, soprattutto nelle ultime pubblicazioni. Ma questa sensibilità, questa urgenza di raccontare la fragilità della montagna l’ho sempre avuta, anche nei primi romanzi dove c’era più attenzione all’aspetto umano e antropologico. Ultimamente ho dovuto concentrarmi su alcuni temi per la loro urgenza e per il ruolo che sento di avere, come scrittore, divulgatore e presidente di una sezione CAI. Cerco di comunicare uno dei temi più importanti, che la montagna non è un parco giochi, non è un posto dove, senza sensi di colpa, si può in modo spudorato esercitare il proprio ego. Questa è una visione novecentesca della montagna, e non mi riferisco solo al turista ma anche a un certo tipo di alpinismo.

 

A cosa ti riferisci?

A un certo modo di raccontare l'alpinismo di concepire salite e discese. Penso all'Everest, alla sua sacralità. Le cime dell'Himalaya stanno diventando montagne dove ognuno può fare qualsiasi cosa, per qualcosa di proprio. Davvero siamo fermi al machismo alpino? Mi sembra un infantilismo, il più deteriore tra gli alpinismi possibili.

 

Che valori dai tu all'alpinismo?

Oggi l’alpinismo dovrebbe essere rispetto della spiritualità della montagna. Invece continuiamo a viverle come se fossero parchi giochi o luoghi dove riverberare il proprio ego. Mi sembra puberale. Forse non ci si rende conto dei tempi che corrono: vedo tanta inconsapevolezza. Solo sport, agonismo, competitività.

Eppure, dall'altra parte, vedo spesso tanti escursionisti attenti alla montagna, che hanno il piacere di scoprire, di salire in alto, di vivere la montagna con i suoi tempi.

 

Questa visione dell'alpinismo ricade anche nella tua presidenza di sezione?

Come sezione ci siamo impegnati molto dal punto di vista della sensibilizzazione ecologista e di una frequentazione della montagna non solo sportiva o performante. Qualche risultato si vede, in tre anni i soci sono triplicati. Abbiamo lavorato molto nel tessuto sociale. Devo dire che anche se la nostra è una sezione piccola, l’impegno è notevole. Sono presidente dal 2023 e lo faccio volentieri, perché la sezione è cresciuta moltissimo.

 

Matteo,  facciamo qualche passo indietro. Oggi sei uno scrittore affermato, ma quando hai iniziato a dire “voglio fare lo scrittore”?
Non c’è un momento preciso in cui l’ho pensato. L’ho sempre desiderato e mi è sempre piaciuto farlo. Ho capito che era la strada giusta quando ho iniziato a fare sacrifici per scrivere, come succede con tutte le passioni. Quando capisci che è qualcosa di irrinunciabile, di travolgente.

Da bambino sognavo di fare il forestale. Crescendo ho poi capito che quella non poteva essere la mia strada, perché bisognava essere bravi nelle scienze (ride). Dopo il liceo ho studiato lettere e filologia e ho seguito la mia passione letteraria. Nel tempo ho capito che la mia voce narrativa autentica usciva raccontando la montagna, e l’ho capito quando ho scritto La pelle dell’orso (2013).

 

È li che hai capito che questo poteva diventare un mestiere?

All’inizio non pensavo di poterci vivere, perché nonostante il successo iniziale pensi sempre che sia un fuoco di paglia. Poi mi sono reso conto che c’erano tante richieste, godevo di una buona considerazione nel mondo editoriale italiano e straniero. Così, non ambendo a una vita consumistica, ho capito che potevo vivere di scrittura.

E alla fine ho anche realizzato il sogno di diventare forestale, quando mi hanno dato il titolo ad honorem.

 

Dove vivi oggi?

Vivo a Colle Santa Lucia, nel bellunese. Passo gran parte del tempo qui ma, mi muovo molto per lavoro. Spesso mi chiedono perché non abbia scelto di andare a vivere in città, ma perché dovrei farlo? Non ne sono attratto, e non ne vedo la necessità. Mi piace stare in mezzo alle montagne, respirare aria buona e avere una socialità sana. Troppo spesso nella vita ci chiedono che lavoro vorremmo fare, ma non ci chiedono mai dove vorremmo farlo. Invece è importantissimo scegliere dove si vuole vivere, dove si sta bene, dove la propria “quota” e il proprio ambiente coincidono.

 

Sei figlio della montagna…

Sono nato e cresciuto a Padova, ma ho passato il tempo più buono della mia vita in montagna. Ho sempre avuto profonde crisi di nostalgia quando dovevo scendere. Da piccolo ho girato molto il Trentino, poi la Val d’Ega, Carezza... le montagne della mia infanzia sono il Catinaccio e il Latemar. Le ho esplorate con mio padre, che era un bravissimo alpinista. Dopo siamo andati nelle Dolomiti bellunesi. Qui ho preso una casa alla fine degli anni Novanta, e da allora ci vivo.

 

Quanto la tua terra ha influenzato la tua scrittura?
Tantissimo. Io sono una persona che cerca sempre di esplorare, di “fare carotaggi” nei luoghi: parlare con le persone, studiare, conoscere, lasciarmi affascinare. Cerco di approfondire quelle conoscenze che si stanno fondendo come i ghiacciai, quell’antropologia, quel mondo della montagna che non c’è più.

Le tradizioni, la cultura, le lingue minoritarie che si stanno perdendo. Le leggende, il mondo paranormale: fino a cent’anni fa quassù credevano anche alle streghe. Nei miei libri ho provato a salvarle, queste tradizioni. Questi luoghi, a dispetto dei “non luoghi” che si trovano più a valle, hanno una spiritualità potentissima. Per questo possono diventare letteratura, e non solo intrattenimento o narrativa di montagna.

 

Però ci sono tanti non-luoghi anche in montagna…
Non è questione di valle o monte, ma di sfruttamento, ricerca del profitto e dissacrazione dell’ambiente. Quello che conta al giorno d'oggi è recuperare la sacralità della montagna. Siamo liberi di fare quello che vogliamo, se lo facciamo con rispetto delle regole e della biodiversità. 

 

Cosa vuoi trasmettere con i tuoi libri?
Non lo so nemmeno io, probabilmente. I messaggi sono più di uno. C’è quello più importante: una lentezza esteriore e interiore. Il recupero di un’umanità che passi necessariamente da una lentezza interiore, la riscoperta del tempo vero. Questo si traduce in relazioni più sobrie e sane tra le persone, e in una relazione con l’ambiente naturale che ci porti a un’interconnessione che abbiamo perduto. 

Abbiamo paura delle cose più sciocche e non delle vere minacce. Mi piace pensare a questo: un lupo, un cervo, un camoscio non hanno paura di passare la notte all'aperto o di prendere freddo alle zampe. Ma se sta per arrivare un terremoto o una tempesta lo avvertono ore prima. Loro sanno distinguere i veri pericoli. Noi, isolandoci dalla natura, abbiamo paura delle cose stupide e non dei veri pericoli. Abbiamo paura del ladro, di perdere il treno... Non dico di tornare a essere primitivi, ma recuperare qualcosa di quell’ancestralità del selvatico.

 

So che stai lavorando a un documentario. Ce ne parli?
Sì, si chiama Per silenzio e vento. Un titolo evocativo che può avere molteplici significati. Attraverso questo racconto vorrei accompagnare gli spettatori attraverso una riflessione itinerante su cosa possa essere oggi l’alpinismo, e come potrebbe essere rivisitato attraverso la contemporaneità che stiamo vivendo. Cosa significa oggi essere degli alpinisti? La parola ha lo stesso senso usato nell’Ottocento? O, col mutare dei tempi e delle lingue, mutano anche i significati? Non voglio dare risposte, ma offrire domande perché ci si possa interrogare.

 

Ci lasciamo con una curiosità: tu cosa e chi leggi?
Cerco sempre di leggere qualcosa. In questo periodo sto rileggendo Geopoeta, nelle terre della percezione di Davide Sapienza, un caro amico che stimo moltissimo.

Ultimamente leggo più saggistica che narrativa, però leggo un po’ di tutto. Mi piace moltissimo la narrativa nordamericana. Da ragazzino mi sono innamorato della letteratura con Mark Twain, poi più avanti li ho riletto tutti, anche Cormac McCarthy, uno dei miei autori più amati. E tra gli italiani, Mario Rigoni Stern. Ho avuto la fortuna di conoscerlo.