Un libro caldo, affettuoso: sfogliare le pagine di La strada verso casa. Pensieri di un cuore alpino (pp. 224, 29,90 euro, Rizzoli 2025), l’ultima pubblicazione di Matteo Righetto, è come stare seduti sul divano davanti a un camino scoppiettante, con una tazza di tè fumante fra le mani, mentre fuori nevica e il tramonto dipinge di rosa boschi e montagne. I temi affrontati sono in buona parte quelli già presenti anche nel Richiamo della montagna, ma la dimensione dell’invettiva là prevalente qui lascia il posto a una dichiarazione d’amore per la montagna che passa dal più profondo della storia personale di Righetto, a risalire su per i valori su cui ha fondato tutta la sua esistenza personale e professionale. Come un genitore che, passato il momento di rabbia, prendesse ora per mano il figlio per provare a spiegargli come mai ci tiene così tanto.
Infanzia dolomitica
Personale/professionale: non sembra esserci in realtà un confine in Righetto fra la dimensione dello scrittore e quella dell’uomo. Il perché affonda le radici nell’infanzia: i primi capitoli raccontano di escursioni nelle sconfinate Dolomiti insieme ai genitori, il padre ottimo alpinista, la madre appassionata di boschi e natura. Il primo legame con i luoghi che poi gli avrebbero fornito lo scenario per i suoi romanzi più amati, come per la sua attività politica dalla forte matrice ecologica (da presidente della Sezione CAI di Livinallongo-Colle Santa Lucia, per esempio), risale al rapporto fortissimo con la sua famiglia. Come se in ogni bosco e su ogni vetta ancora oggi Righetto cercasse suo padre e sua madre e quei giorni pieni di vita passati ad attraversare in particolare il Latemar e il Catinaccio, le montagne del cuore, per lui divenute col tempo simbolo della poesia la prima, della prosa la seconda. “La scheggia non cade lontano dal ceppo” recita un proverbio ladino citato proprio nel capitolo di apertura, e dunque Righetto si sente e si considera appunto “una scheggia caduta vicino al ceppo”.
Fa sorridere pensare che suo padre con i fratelli gestiva i Bagni Perla, uno stabilimento balneare sul litorale veneziano, già affollatissimo negli anni ‘70. Il piccolo Matteo soffriva a passarci le estati, non solo perché era una dimensione caotica di vacanza, ma anche perché era un asmatico e tutta la polvere sollevata dai bagnanti peggiorava la sua situazione. Vien da pensare che in altra maniera soffrisse anche suo padre, considerando la sua vocazione alpinistica, e infatti dopo il mare arrivava un bel mese in montagna.
A respirare, letteralmente.
“Amore a prima vita”
Il legame con il territorio alpino e in particolare dolomitico, fauna e flora incluse, è una rivendicazione che con orgoglio l’autore de La stanza delle mele esibisce, non per vanto, ma a dimostrare che certe battaglie, certe scelte, certe convinzioni non sono posticce: non è per moda che ha scelto di ambientare i suoi romanzi in montagna. La prima volta che ha visto Colle Santa Lucia, piccola perla nel cuore del Fodòm ladino, era il 1982, suo padre ci era già stato addirittura nel 1956: pare che nonostante avesse appena dieci anni il piccolo Matteo avesse già capito che avrebbe voluto vivere proprio lì. “C’era qualcosa che mi chiamava”, scrive, e per questo negli anni ci è poi tornato spesso. Anche nei giri solitari che ormai ventenne riempivano i momenti liberi durante gli studi universitari in Lettere, a Padova, la città dove è nato (l’abilitazione all’insegnamento l’avrebbe presa a Venezia).
Ancora più che in ogni altro luogo a Col si sentiva a casa, circondato dalle sue Dolomiti (il Monte Pore del Sentiero selvatico, l’Averau, il Cernera), solo lì provava quel benessere profondo che gli islandesi chiamano “heimkoma”: una sensazione di intima piacevolezza che assapora chi torna a casa dopo un lungo viaggio. E casa non può che essere quel posto dove ci si sente felici, come pensano i tibetani.
SCRITTORE DA CRODE
Le Dolomiti sono state un “amore a prima vita” ed è percorrendole, conoscendole, faticandoci dentro (anche con gli amatissimi sci) e ammirandole all’alba come al tramonto, con la neve e con la nebbia, col sole in faccia e sotto la pioggia, fin dalla più tenera età, che è maturata la convinzione di diventare scrittore. “Non c’era nulla, in questi luoghi, che non meritasse di essere celebrato”. Inventare storie fantastiche con montanari immaginari e crode leggendarie da conquistare era uno dei giochi preferiti da bambino, ed è tornato utile quando da padre ha iniziato anche le sue figlie al regno di Re Laurino. Così l’anima si è allenata a notare e apprezzare le piccole cose che offre un silenzio alpino, prime vittime sacrificali (ma non uniche) della frenesia metropolitana che tutto svuota di senso, se non è moneta sonante. Particolari intimi e quasi impercettibili che poi sono confluiti nei suoi romanzi, come la bellezza sublime e poco nota dell’enrosadira di novembre, o lo stupore dell’avvistamento della rarissima pernice bianca.
Se è vero che tutti noi abbiamo un urgente bisogno di montagna per rimanere umani, è altrettanto vero il contrario: anche la montagna ha bisogno di noi per restare selvaggia.
Non solo idillio
Sì, Righetto tende a dipingere la montagna come un idillio, quello che per molti si identifica in un bello chalet in pietra e legno dotato di ogni lusso, da vivere per qualche giorno all’anno durante una gradevole vacanza. Troppo bella, troppo amata la montagna per non lusingarla a ogni pagina: ma il nostro autore lo sa bene che non abita nessun idillio nelle terre alte. Anzi. Proprio l’età adulta gli ha portato con gli anni quella consapevolezza necessaria ad accorgersi anche della fragilità dell’ambiente alpino, soprattutto in un’epoca di cambiamento climatico, e delle difficoltà che vivono i montanari che lo abitano fra mille contraddizioni, i quali oltre al peso della mancanza di servizi che caratterizza le aree interne sostengono la responsabilità di custodire la storia dei luoghi da cui provengono, preservando e portando avanti tradizioni, dialetti, antichi mestieri e conoscenze senza tempo. Un’immagine molto diversa da quella registrata nel Richiamo della montagna, dove non era mancata una critica tagliente a quanti dovrebbero proteggere i posti di provenienza, finendo invece per sfruttarli oltre ogni misura.
Un caleidoscopio di bellezza
Il libro è un susseguirsi di fotografie mozzafiato come i paesaggi che ritraggono. Provengono tutte dall’archivio personale dell’autore. Sono un carosello emozionale di colori, creste, foglie, oggetti, che sembrano quasi sprigionare odori e sapori con incredibile potenza realistica, tanto che il libro potrebbe benissimo fungere da catalogo di una di quelle mostre multisensoriali con video-installazioni sonore capaci di esaltare la parola in un caleidoscopio di immagini. Prati verdissimi, montagne maestose appena lambite da qualche nuvola perfetta come l’azzurro del cielo in cui si stagliano, merlate di neve o impreziosite dal velluto arancione del tramonto. Spicca qua e là Dorch, il pastore del Lagorai, chiamato così dall’amico Mauro Corona perché in ladino significa “fieno di settembre”, insostituibile compagno di tante esplorazioni. E con lui occhieggia anche l’autore, non senza un pizzico di vanità (ce lo consenta Righetto): del resto è fin troppo consapevole che in una società dominata dal libro delle facce e fotogrammi istantanei apparire diventa necessario a non lasciare campo aperto solo a millantatori o sovversivi. Si capisce meno l’utilità delle mappe che ogni tanto compaiono tra le foto: anelli escursionistici dei luoghi più significativi per l’autore, con punti tappa che volutamente nulla dicono di dislivelli, durate e distanze, nonostante l’autore abbia ben contezza dell’argomento. E infatti un capitolo è dedicato all’Alta Via dell’Orso.
Una candela nel buio
Nata come per magia dal suo primo, grande successo, il romanzo La pelle dell’orso (2013), diventato anche un film con Marco Paolini, l’Alta Via dell’Orso è stata la prova che la scrittura può avere una ricaduta tangibile sul territorio non solo di matrice “lirica”, ma anche economica: “Questo percorso naturalistico-letterario ha indicato una strada nuova per lo sviluppo dell’economia turistica di montagna, basato sulla cultura, il rispetto delle tradizioni, l’educazione ambientale e la consapevolezza ecologica”, dichiara Righetto. Ed è questo un punto importantissimo di tutto il libro, forse anche di tutto Righetto: La strada verso casa costituisce un potente appello alla mobilitazione “morale” di chiunque abbia a cuore la montagna, la natura, gli animali e le piante che la vivono, ma anche gli esseri umani che la custodiscono quotidianamente. L’autore sembra dirci: io ho scritto questo libro, ho scelto di difendere la montagna da scrittore, ma anche tu puoi fare qualcosa, non importa cosa, trova la tua “strada verso casa” se anche te la montagna rende felice. Come direbbero i ladini: “Accendi una candela, invece di maledire l’oscurità”.
Per me la montagna non è mai stata solo un ambiente fisico, geologico e orografico, ma una dimensione esistenziale in cui continuo a cercare, e a volte a ritrovare, me stesso. È, in fondo, uno specchio della mia coscienza, un luogo di grandi domande in un’epoca e in un modo dominati da chi custodisce solo certezze nelle proprie tasche e offre risposte pronte per ogni dubbio.