Toscano di nascita, fin da bambino Mirko Baricchi stringe un forte legame con i monti della Garfagnana e le zone dell’alta Lunigiana. Questa relazione intima e personale con l’ambiente montano si estende, negli anni successivi, dal Monte Pisanino delle Alpi Apuane fino al Monte Parodi dell’Appennino ligure. È lì, sulla stretta linea di terra che emerge dalle acque spezzine, che, negli anni, l’artista coltiva una profonda conoscenza della montagna e dei suoi elementi, con un particolare interesse per il bosco, la sua vegetazione e le innumerevoli creuze, che discendono la costa impervia e conducono al mare.
È dall’accumularsi di queste esperienze, grazie alle quali l’artista si immerge fisicamente e sensorialmente nell’ambiente montano, congiuntamente a una costante sperimentazione della tecnica pittorica, che nascono le opere di Mirko Baricchi. Capace di unire i linguaggi artistici più contemporanei a esperienze immediate e naturali, Baricchi offre agli spettatori una vera e propria esperienza immersiva e sinestetica. Caratterizzate da un gesto pittorico veloce, che tuttavia non lascia da parte tecnica e composizione, le opere di Mirko Baricchi dialogano con gli elementi naturali attraverso l’impiego di un registro astratto e variegato.
Mirko, cos'è per te la montagna?
La montagna mi accompagna da sempre. Sono figlio di due toscani delle montagne: mio padre è originario della Garfagnana e mia madre dell’alta Lunigiana, nella zona di Passo del Cerreto. Ben presto ci siamo trasferiti a La Spezia e anche lì, invece del mare, frequentavo l’Appennino, che è sempre stato il mio orizzonte, quasi la mia scenografia. La mia relazione con la montagna inizia dunque non da turista, ma come camminatore attratto dall’esperienza estetica che essa rappresenta. La montagna è infatti un bel soggetto da ritrarre; facilmente stilizzabile e spesso centrale nelle composizioni, si presta molto a rappresentare la sua imponenza.
Negli anni, durante alcune esperienze all’estero, la montagna si è confermata essere una presenza costante nella mia vita. Anche dove vivo oggi, alle pendici dell’Altopiano di Asiago, la montagna è parte del mio quotidiano. È il posto che mi ricorda dove posso stare bene.
Uno degli elementi ricorrenti nelle tue opere è la selva. Perché ti affascina tanto?
La selva che dipingo non è tanto una citazione della selva dantesca, bensì un riferimento a Spinoza, che, con la sua celebre frase “Deus sive natura”, propone una divinità intrinsecamente legata alla natura e che in essa si confonde. Un discorso, questo, che ha risuonato molto in me e che ha soddisfatto in parte la mia ricerca. Alla natura, poi, Spinoza associava spesso la dimensione boschiva e dell’acquitrino. Da queste riflessioni è emerso quindi il pretesto pittorico, al quale ho dato seguito lavorando concettualmente sui toni del verde e ricercando le sensazioni che si provano in natura. Ho iniziato dunque a lavorare sulla traccia lasciata dalle esperienze dirette in montagna e applicare il mio sguardo sulla natura. Si è aperto così un ciclo molto produttivo e che nel tempo si è evoluto verso piani scenografici composti da visioni, sia esterne che interne.
Come ci si addentra in un bosco?
Non c’è solo un modo. Per quel che mi riguarda, sono un gran camminatore e il mio modo è di entrarci a testa bassa e coprire lunghe distanze. Mi approccio come se fossi una specie di ariete, perchè mi piace inoltrarmi ed esplorare, ma sempre con grande rispetto per l’ambiente e per le persone, provando a non lasciare traccia. Non tanto per via di un'anima profondamente ecologica, quanto, piuttosto, per una questione meramente civica, così come mi hanno insegnato i miei genitori.
C'è un tipo di bosco che preferisci?
Il mio posto del cuore è il Monte Parodi, che sovrasta La Spezia e le Cinque Terre. Non è altissimo, ma ospita un bosco di conifere meraviglioso. Un bosco tout court, ma appena alzi lo sguardo, tra le fronde degli alberi intravedi il sole che rimbalza nel mare. Ti rendi allora conto di essere circondato da un fitto reticolo di creuze vecchie centinaia di anni, che ti conducono giù fino alla spiaggia. È veramente un bel bosco, fitto e molto ricco; passa dai pini marittimi alle magnolie, dai fichi d’india alle vigne, dai cactus alle erbe aromatiche. C’è una biodiversità che non ha eguali. L’inverno, poi, sul Parodi nevica. Per me è una specie di Etna ligure.
Che ruolo ha la natura nell'arte?
Un ruolo c’è. Noi stessi siamo parte della natura. Per non perdersi nell’inferno, perché di inferno si tratta, i più fortunati tra noi si sono messi a fare arte, a scrivere, a danzare e, perchè no, anche a correre, a occuparsi degli altri, a dipingere e così via. L’arte è tante cose, ed è qualcosa di naturale. Facendo parte del sistema naturale, non possiamo fare finta che ciò che fa l’uomo non ne sia anch’essa parte. Senza natura, non ci sarebbe l'uomo così come lo conosciamo; noi stessi saremo diversi. Senza natura, che è la fonte d’ispirazione per antonomasia, non c’è bellezza. Ritengo, quindi, che la natura sia il modello per eccellenza, l'elemento necessario per poter produrre bellezza. Arte e natura, per me, sono inscindibili.
Perché hai scelto la pittura come medium artistico?
È sempre stata la cosa che mi ha interessato di più e non ho mai smesso di frequentarla. Nel tempo, ho conquistato la tecnica lavorando e sperimentando molto; le mie tecniche sono infatti alternative e personali. In definitiva, coltivo la pittura perché è un modo di dare senso ai giorni che passano. Dipingere mi fa stare meglio, così come andare in montagna. Ciò che conta, per me, non è solo il risultato, quanto l’atto del dipingere. È il mio luogo, ed è salvifico.
La tua pittura contiene molte stratificazioni, cosa rappresentano?
Con il tempo, ho scoperto che mi interessa molto l’aspetto estetico della natura, riprodurne i pattern e i vari schemi che si ripetono. Da lì ho iniziato a cercare di riprodurre elementi più eterei, come ad esempio l’umidità di un bosco e la sua percezione. Lavorando molto velocemente, tendo a rappresentare, comunque e inconsapevolmente, ciò che vedo. L’ho notato, ad esempio, dopo il periodo passato a La Spezia, che ha impresso dentro di me una linea orizzontale, chiaramente quella del mare. È la memoria dell’esperienza vissuta che affiora ed è impossibile resistere. Per questo, non lavoro con le nature morte, ma per stratificazioni di ricordi e percezioni.
Vale anche per la lepre, che spesso ritorna nei tuoi quadri?
Sia la lepre che Pinocchio, sono diventati un po’ dei feticci, quasi fossero testimoni silenti delle mie composizioni. Inizialmente, inserivo di tanto in tanto una lepre raffigurata nell’atto del saltare. È un riferimento a Cagliostro, il quale diceva che il simbolo per eccellenza del cambiamento è la lepre che salta. In quel momento, stavano cambiando tante cose nella mia vita e inserire una lepre nelle mie composizioni mi sembrava di buon auspicio. Nel tempo, tuttavia, la lepre è rimasta e oggi mi piace ritrarla ferma, quasi in un momento di osservazione, testimone del cambiamento compiuto. Se inizialmente aveva un significato simbolico, oggi è più un vettore di composizione.
Che rapporto trovi tra figurazione e astrazione?
Con il mio lavoro, strizzo l’occhio all’informale e, al tempo stesso, a molti altri filoni, come il disegno calligrafico, la pittura naif, ma anche ai paesaggi rinascimentali e a quelli dei romantici come Blake o Friedrich. I miei quadri non sono astratti in quanto non voglio rappresentare nulla. Al contrario, in testa ho il tema della natura, che elaboro però attraverso un filtro concettuale senza l’intenzione di rappresentarla. Per questo non si tratta di rappresentazioni della natura, bensì di presentazioni.
Contestualmente, mi piace esaurire tutte le possibilità della pittura e ciò mi porta a realizzare lavori anche molto complessi dal punto di vista tecnico. Definire il rapporto tra astrazione e figura in modo categorico diventa quindi limitante. L’astrazione esiste, ma non c’è una vera e propria dicotomia con il figurativo. Come del resto ha ben dimostrato Gerhard Richter, che passava nell’arco di poco tempo dal dipingere una candela in stile iperrealista al realizzare un quadro monocromo. A ben vedere, un quadro è un’illusione, è comunque una menzogna, perché non rappresenta mai veramente una figura; non c’è nessuna differenza in sé tra il rappresentare qualcosa che esiste e il rappresentare qualcosa di inventato.