A cura di Mirco Grasso
Scalando con i giovani del villaggio
Con gli abitanti del villaggio
Scalando con i giovani del villaggio
Mirco e Samuele
Il tracciato di Macachi, l'ultima via aperta dalla spedizione
Samuele in scalata
Samuele in scalata
Mirco in scalata
Mirco in scalata
Mirco in scalataNon ricordo bene la prima volta che sentii parlare del Monte Panda, montagna inviolata nel cuore del Mozambico. Era probabilmente nel 2023, durante una riunione del Club Alpino Accademico Italiano (CAAI), quando Samuele Mazzolini mostrò alcune foto scattate da un amico di sua sorella.
Anna, la sorella di Samuele, aveva lavorato in Mozambico per progetti di riurbanizzazione dell’ONU e spesso inviava fotografie di montagne al fratello. La sua passione per la montagna crebbe fino a spingerlo a esplorare Google Earth, alla ricerca di cime isolate e spettacolari. La scoperta del Monte Panda fu quasi casuale, un vero “brufolo” in mezzo alla savana.
I primi sopralluoghi
Io, all’epoca, ero concentrato su altri viaggi estivi, ma Manrico e Antonella non persero tempo: organizzarono una visita lampo con Anna per osservare la montagna, capire se fosse scalabile e studiare l’accesso al campo base. Tornarono con alcune foto e informazioni utili, tra cui la presenza di acqua nelle vicinanze.
Quando, nell’autunno del 2024, il tema tornò in discussione al convegno annuale del CAAI, ero appena rientrato dalla Groenlandia, una spedizione difficile e sfortunata. Avevo bisogno di un’avventura più “tranquilla”, e accettai di partecipare al progetto, iniziando a organizzare la spedizione.
La squadra
Al gruppo si unirono Maurizio Giordani, sua moglie Nancy, Samuele e noi altri. Eravamo sei in totale, divisi in due cordate per la scalata, con compiti logistici ben definiti. Nonostante le differenze di età e background, l’entusiasmo per la montagna fu il filo conduttore che ci legò fin da subito.
Da subito, notai l’impegno particolare di Anna e Antonella, che si occuparono degli aspetti burocratici e dell’organizzazione degli spostamenti nella riserva privata dove si trova il Monte Panda.
Il viaggio in Mozambico
Il punto di ritrovo era Beira, dove io, Samuele, Manrico e Antonella arrivammo per primi. Nei giorni seguenti ci dedicammo agli acquisti necessari per allestire il campo e organizzammo il materiale logistico e alimentare per i giorni successivi.
Il viaggio verso il Monte Panda attraversò città come Chimoio e Macossa, con soste per coordinarsi con contatti locali e assicurarsi che tutto fosse pronto per il campo base. La collaborazione con i ragazzi locali fu preziosa, sia per la logistica sia per la comprensione del territorio.
Campo base e prime ricognizioni
L’indomani finalmente era giunto il momento di entrare al campo base. Si comincia a vedere da vicino il Phandambiri ed è proprio un bel "babau".
Entriamo in due gruppi, visto che c’è solo una jeep; io, Samu e Manrico siamo i primi a raggiungere il campo. Identifichiamo uno spiazzo dove già qualche cacciatore era stato, abbastanza pulito dall’erba, in piano per poterci sistemare con le nostre mille tende, e avevamo una sorgente d’acqua a cinque minuti, perfetto.
Assieme a noi c’è anche il regulo, che non ho capito perché, ma voleva fare di nuovo il rito anche al campo base.
Ci mettiamo al lavoro per sistemare le varie piazzole e cominciamo a montare la tenda mensa e tutte le altre tende; pure il regulo si dà da fare.
Dopo un paio d’ore arrivano gli altri: noi avevamo quasi fatto tutto. Facciamo di nuovo questo rito e rientrano tutti a casa, tranne Armindo, Norman ed Ernesto. Il primo è la guardia del nostro campo, armato di carabina; gli altri due erano a nostra disposizione per aprire sentieri e farci da “guide”. Poi era rimasto anche Francisco, un ragazzo di Dzembe che ci dava una mano a lavare i piatti e prendere acqua.
Come sempre accade con le persone locali con cui si condivide il campo, nel corso dei giorni successivi ci affezioneremo molto a tutti loro e, anche se avevamo un po’ il limite della lingua, si creò un bel rapporto.
Appena suona la sveglia il giorno dopo, colazione veloce e subito ci mettiamo in ricognizione della montagna. Avevo immaginato un paio di posti buoni per cominciare ad aprire qualcosa di carino, che non fosse una “rumegata” solo per andare in cima a tutti i costi.
Ci dividiamo in due gruppi che saranno poi le cordate: io e Samu il primo, tutti gli altri il secondo.
Mentre noi andiamo a guardare da vicino la roccia in prossimità di dove pensavamo fosse papabile salire, gli altri optano per fare il giro intero della montagna, con una deviazione in cima alla sella per vedere l’attacco della via che pareva essere la più facile e corta della parete.
La parete sembrava avere diverse rigole nere qua e là; se quelle rigole fossero state effettivamente scavate sufficientemente dall’acqua, a tal punto da formare il bordo, sarebbe stato bellissimo seguirle. Sfortunatamente, quando ci siamo andati vicino con il drone e con il binocolo, quelle rigole erano solo dei segni neri, nessun bordo utilizzabile per scalarci.
Dall’altra parte, invece, ci rendiamo conto che la roccia nera era molto lavorata dall’acqua e sembrava formare diversi knobs, delle specie di manigliette a forma di funghi. Optiamo quindi per salire una linea nel mezzo della parete est, che attaccheremo subito il giorno dopo.
Inizialmente sentivo abbastanza pressione addosso, non tanto per fare la via - sono abbastanza convinto che in qualche modo me la sarei cavata - ma più che altro perchè volevamo fare qualcosa per la popolazione locale. Eravamo giunti alla conclusione di provare a far scalare due classi delle elementari; niente di che, ma sembrava una bella cosa per creare un po’ di gruppo. Ci eravamo accordati con le due classi per incontrarci due giorni dopo il nostro arrivo al campo base, bisognava però trovare prima una paretina da attrezzare, che non fosse né troppo difficile né troppo facile.
Quindi, dopo aver girato per trovare dove aprire la nostra via, sempre con Samu ci mettiamo subito a cercare una paretina per i bambini e, poco prima del buio, troviamo una placca perfetta per il nostro scopo: mezz’oretta dal campo, alle pendici della “montagna figlio”, una montagnozza più bassa vicina al Phandambiri.
Terzo giorno al campo: sveglia con calma, tanto la parete è al sole e dista una mezz’ora dal campo base. Prendiamo su due batterie del trapano e attacchiamo la via che avevamo individuato il giorno prima. La scalata si rivela fin da subito ancora meglio di quanto ci aspettassimo: roccia lavoratissima, piena di funghi di roccia e per niente vegetata, abbastanza facile ma davvero uno spettacolo.
Saliamo veloci due tiri e mezzo, ma appena la parete va in ombra finiamo le batterie del trapano. Niente, bisogna scendere: senza bucare qua non si va da nessuna parte, non ci sono fessure né altre possibilità di proteggersi con protezioni veloci. Ci eravamo però finalmente “sbloccati”.
Avevamo ancora un paio d’ore prima del buio, e decidiamo di attrezzare e mettere in sicurezza due tiri sulla placchetta del giorno prima, perché sarebbero arrivati i bambini l’indomani e questo lavoro era decisamente meglio farlo prima del loro arrivo.
Un mondo sconosciuto
Stavo fremendo per scalare, ma quel giorno eravamo d’accordo per far scalare i bambini. Dovevano arrivare alle 8, ma li abbiamo aspettati almeno fino alle 10.
Arriva una jeep piena di bambini stupendi, assieme alla prof, al preside della scuola, al regulo e a qualcun altro raccomandato. Alcuni bambini sono ben agghindati, altri invece parecchio trasandati e chiaramente malnutriti; era evidente quali fossero i figli dei vari “capi”.
Anna chiede e memorizza il nome di tutti e 15 i bambini, ci presentiamo e, in fila indiana, seguiamo Norman che ci fa strada fino alla placchetta che avevamo sistemato il giorno prima.
La maggior parte dei bambini è senza scarpe; altri se le tolgono per camminare meglio sulle parti più ripide del sentiero, ma rimangono tutti composti ed educati. Si vede poi che sono parecchio intimoriti da noi, ma proviamo a metterli a loro agio nel migliore dei modi.
Inizialmente temevo che la placca fosse troppo difficile; non appena li ho visti camminare, ho cominciato a pensare che fosse invece troppo facile, ed infatti è stato così.
Cominciamo a farli salire a due a due su linee diverse: io sto su a fare le foto e ad aiutarli a farsi calare giù, Samu e gli altri stanno giù a fare sicura e a legarli.
Salgono tutti velocissimi, senza paura; sembrava si stessero divertendo. La difficoltà maggiore era nel momento in cui dovevano scendere: dovevano fidarsi della corda e lasciarsi cadere all’indietro, ma con un po’ di carambole siamo riusciti a farglielo capire. Anzi, è diventato proprio quel momento il più divertente.
In 3-4 ore salgono tutti, prof compresi; sembra un successone e si fa ora di rientrare. Arriviamo al campo con ancora più o meno tre ore di luce; di corsa andiamo sulla nostra via ed apriamo altri due tiri, rientrando in mezzo alla foresta al buio, ma stavamo cominciando a conoscere la strada, quindi senza troppi problemi.
Il giorno dopo ci svegliamo con una giornata molto fredda e uggiosa. Cavolo, doveva essere per noi una super giornata di scalata ed invece eravamo al campo ad aspettare la pioggia. Nel frattempo arrivano gli altri bambini che dovevano scalare, ma per il meteo non si poteva andare.
Ormai erano da noi, avevano fatto quasi due ore di jeep al freddo e non potevamo rispedirli a casa senza far nulla.
Ci inventiamo una giornata “cinema”: Maurizio ha nel pc dei suoi video da mostrare di qualche sua vecchia avventura in giro per il mondo e qualcosa di scalata. Passiamo quindi due ore così, un’ultima scaldatina al fuoco e via, tutti sulla jeep verso casa.
Il tempo era ancora uggioso, ma non sembrava più minacciare pioggia. Mentre gli altri rimangono al campo, convinco Samu a venire su per la via; questo, a fine giornata, ci ha ripagati con altri due/tre tiri aperti.
Avevamo praticamente aperto e fissato in tutto sei tiri e mezzo. Il giorno dopo big day sulla via per entrambi i team. Noi arriviamo all’undicesimo tiro, gli altri più o meno simile. Nel frattempo Anna intratteneva le varie persone che venivano al campo base, Dan faceva il naufrago stile “Isola dei Famosi”, sempre con il baffo rigorosamente immacolato e la pelle del viso idratata. Direi comunque che è stato d’aiuto al campo, sia per cucinare sia per tenere i dispositivi carichi con i pannelli solari.
Quella sera rientriamo, come al solito, al buio al campo, mentre gli altri sono già lì da un po’. Ci confermano che la loro via è piena di erba e muschio e ci mettono al corrente che hanno trovato anche un golfaro lungo la via. Alla faccia della montagna inviolata.
Pareva qualcosa degli anni ’80: un tizio mi aveva detto che forse c’era stato il tentativo di un pastore, interrotto dal vento e dalle difficoltà. Strano però che un pastore bucasse la roccia per piantare chiodi.
A questo punto, sia noi che gli altri decidiamo di salire in parete e trascorrere la notte lì, con l’idea di completare la via lo stesso giorno. Il piano era di salutarci dalle due cime del Phandambiri, visto che la nostra e la loro via terminavano logicamente su ciascuna delle due vette della montagna.
Prima però siamo stati invitati a Dzembe, il villaggio vicino alla montagna, quello dove vive il regulo, per una festa. Voleva dire che avremmo acquistato e offerto un sacco di cibo e bevande, avremmo cucinato assieme e passato del tempo con loro.
In tarda mattinata ci passa a prendere la jeep, e in un paio d’ore arriviamo al villaggio, passando per l’entrata della riserva dove incrociamo Luchigno, il boss della riserva. Arrivati a Dzembe, un mix di emozioni mi pervade. Il villaggio è composto da una decina di capanne, tre stanze murate che fungevano da scuola, 3-4 bagni contornati da bambù con un buco scavato e un pozzo dove prendono l’acqua.
La scuola non ha né cattedra né banchi né sedie, le capanne sono marce e vicino ai bagni c’è puzza, c’è ovunque puzza.
Nonostante tutto però ci sono un centinaio di bambini che giocano, sembrano contenti, sembra che tutti stiano facendo una vita bella e divertente, anche se alcuni di loro hanno la pancia gonfia per la scarsa alimentazione.
In attesa che il riso fosse pronto, cammino qua e là per il villaggio a guardarmi intorno. Un po’ mi vergognavo a incrociare gli occhi con loro, mi faceva strano. Mi affianco al regulo, bello tranquillo sempre con il suo doppiopetto nero, e provo a colloquiare un po’ per distrarmi; ero abbastanza a disagio.
Pensavo a un modo per poter fare davvero qualcosa per questo villaggio. Ci vogliono i soldi, penso, o forse è questione della loro mentalità. Non capisco come mai vivono così; forse con le loro risorse potrebbero già migliorare, costruirsi case migliori, coltivare, curare l’igiene. Forse possiamo fargli capire che si può vivere meglio di così, o magari stanno già bene… Boh… Non sono riuscito a trovare risposte.
Finalmente il riso e i fagioli sono pronti, li spostiamo all’ombra dentro la scuola e cominciamo a preparare dei bei piatti per tutti: prima i bambini e gli anziani, poi gli adulti.
È incredibile come tutti, ordinati ed educati, si mettano in fila, ognuno con il proprio contenitore di fortuna che fungeva da piatto, ad aspettare il turno senza fiatare.
Diamo da mangiare a 100-150 persone; li vedo abbuffarsi e stare bene, ridere e cominciare a essere più in confidenza con noi, soprattutto i bambini.
Cominciano a giocare con noi; una signora di forse 70 anni si mette a ballare, tutti cantano, forse qualcosa ha funzionato.
Sta facendo ormai buio; saltiamo sulla jeep e ci avviamo verso il nostro campo. Diversi bambini corrono dietro alla jeep per qualche centinaio di metri, una bella scena. Io ero vestito pochissimo, in pantaloncini corti, seduto dietro all’aperto e mi congelo per due ore. Tutto passa quando mi infilo nel sacco a pelo troppo pesante e, come ogni notte, sudo come un cane.
La prima salita del Phandambiri
Suona la sveglia, era il mio compleanno, quel giorno avevamo previsto di dormire in parete, noi in portaledge, gli altri nella cengia mediana, doveva essere per tutti l'ultimo push per la cima, l'unica incognita per entrambe le cordate era l'autonomia del trapano.
Risaliamo tutte le corde che avevamo fissato verso ora di pranzo, poi parto io ad aprire, al primo buco mentre tiro su il trapano dalla sosta batte su una sporgenza e salta via la batteria bella carica giù dalla montagna, assieme alla batteria, volarono diverse bestemmie. Speriamo che le altre due che abbiamo siano sufficienti per terminare la via.
Apriamo un paio di tiri, sistemiamo la portaledge, dronatina, solita busta per cena e ci infiliamo in sacco a pelo. La portaledge era quella vecchia di Manrico, molto instabile e bastava un piccolo sbilanciamento per ribaltarsi, una volta durante la notte ci è pure successo. Passiamo quindi la notte immobili, in realtà io dormo molto bene… ribaltamento a parte.
Il giorno dopo era una corsa contro le batterie che si stavano inesorabilmente scaricando, ogni buco poteva essere l'ultimo. Con questo timore cominciamo a ridurre gli spit nei tiri, anche la verticalità della parete cala, e in alto lasciavamo un solo spit per sosta, collegando il primo del tiro successivo con quello della sosta sotto, un po' più lenti ma potevamo stare tranquilli appesi su due punti. Al diciassettesimo tiro sento Samu che aveva appena sostato e percepisco che voleva scendere: la cima sembrava lontana e avevamo a disposizione uno o due buchi forse, anche se la luce che avevamo a disposizione era ancora parecchia. Gli ultimi 5 tiri sono abbastanza in placca e non proprio bellissimi, avevo male ai piedi per il caldo e non avevo voglia di rifare tutta la via per aprire l'ultimissimo pezzo. Prendo il comando, il terreno si era ormai fatto facile, faccio 60 metri senza una protezione e pianto uno spit di sosta. Mi raggiunge Samu, faccio altri 60 metri e raggiungo un albero, praticamente in cima alla montagna.
Ci sleghiamo e a piedi arriviamo su in cima, una bella liberazione, avevamo aperto proprio una bellissima via che chiameremo poi "o camignho dos cogumelos" - il cammino dei funghi -, proprio perché dall'inizio alla fine la via segue una continua sequenza di funghi di roccia.
Con qualche ora di doppie siamo alla base della parete. I funghi, assieme al molto vento, sono stati una bella seccatura quando si tiravano giu le corde in calata: la corda si impigliava dappertutto.
Degli altri nessuna notizia, in cima non li avevamo visti. Arriviamo al campo ed erano tutti lì lavati e profumati, rientrati prima del previsto perché avevano pure loro finito le batterie del trapano appunto, ma troppo lontani dalla cima.
Gli serví poi un'altra notte in parete per completare la loro via "il mistero del phandambiri", nome scelto perche lungo la loro via trovarono, oltre al primo golfaro, diversi altri segni di passaggi precedenti: fittoni, spit artigianali, altri materiali degli anni Ottanta, e alcuni di quelli erano in posizioni senza senso. Questo, oltre a estese tracce di un incendio.
Scoprimmo poi, da un lavoratore di Luchigno che durante la guerra civile in Mozambico, avvenuta proprio a ridosso degli anni Ottanta, qualcuno in elicottero provò ad andare in cima al Phandambiri, senza successo per via del vento. Magari quei fittoni sono proprio di qualcuno che poi salì dal basso per qualche appostamento.
Per quanto riguarda il fuoco invece, ci spiegarono che diverse volte in passato la montagna prese fuoco, in maniera spontanea per il vento, il cado e i vari fuochi che appiccano giù in basso per liberare dalla fitta vegetazione. Questo fatto è visto da molti locali come un qualcosa di sacro, per loro è uno spirito vestito di bianco che appicca il fuoco sulla montagna, molti affermano pure di averlo visto durante l'atto a decine di chilometri di distanza.
Il giorno dopo essere sceso dal monte Panda non ho voluto fare più di 100 metri in tutto, avevo i piedi completamente fritti. Ho fatto colazione, doccia, pranzo, relazione della via e sistemato foto, cena, letto. Questo per me è stato l'unico giorno di riposo al campo in 17 giorni… fatica, ma una figata!
Anche gli altri hanno riposato quel giorno anche se potevo percepire il loro affanno. Il tempo scorreva e pure il loro cavallo di battaglia, Maurizio Giordani, cominciava ad avere timore di non riuscire a finire in tempo la via visto che lui e nancy avevano deciso di rientrare in Italia prima del resto del gruppo. Si valutò allora di andare sulla loro via tutti assieme, ma pensandoci non saremmo stati più veloci, anzi, saremmo stati in 6 in parete quindi decisamente più lenti, per il loro ultimo tentativo gli prestammo il nostro trapano che andava molto meglio del loro e andò tutto per il meglio. Nel frattempo noi con un trapano marcio cominciavamo a mettere il naso su un altro progetto.
Un nuovo progetto
Il giorno che abbiamo portato i ragazzi di Dzembe a scalare non riuscivo a togliere gli occhi da una sezione di parete proprio sopra la placca che avevamo attrezzato. Questa linea, appunto, non si trovava sul monte Panda, ma sul piccolo satellite che i locali chiamano "montagha filho".
Avevamo salito la montagna principale per una linea logica e mai difficile, seguendo le debolezze della roccia, tanta placca; ora però era arrivato il momento di tirare sul serio!!!
Era evidente che la parete della montagna figlio fosse molto ripida, e la cosa che aveva catturato l’attenzione era il colore della roccia, che sembrava fluorescente e abbastanza lavorata.
Il bello di aprire questa via è stato il fatto di non avere nessuna pressione, tanto comunque qualcosa in questa spedizione lo avevamo già portato a casa. Quindi, a parte lo "zoccolo" e i primi due tiri stupendi che erano ovvi e facili da salire senza troppe incognite, mi sono lanciato su un muro leggermente strapiombante con poche concrezioni e qualcuna troppo delicata per reggere un bisonte che le tirona. Sarebbe bastato che mancasse una piccola tacchettina per non passare e interrompere il progetto.
È stato fighissimo: salivo piano piano, sempre senza passi di artificiale, ad ogni spit che piantavo ripulivo tutto con amore e provavo tutte le altre possibili combinazioni di movimenti. Mi ci sono voluti due giorni per completare quel tiro, due giorni brevi in realtà, visto che la parete rimaneva al sole fino alle 15 e con il caldo su quei piccoli appigli e appoggi sarebbe stato un problema.
I due giorni dopo Samu completa gli ultimi due tiri e proprio il giorno prima di rientrare verso casa, grazie a un po' di arietta salita al momento giusto, riesco a salire in libera il tiro chiave della via, assieme agli ultimi due, mettendo la ciliegina sulla torta su questa nuova gemma Mozambicana.
Chiamiamo la via "Templo dos Macacos" per via dei tantissimi macachi che ci hanno accompagnato durante ogni giorno di apertura e durante la libera.
Alcune riflessioni conclusive
Prima di rientrare verso Beira, come promesso, lasciamo diverso materiale tecnologico, tavolo, sedie, farmaci e stoviglie varie, un po' a Dzembe dal regulo che li avrebbe messi a disposizione per tutti e un po' a Niamagua, destinato alla casa di cura. Solita mangiata di ore in pick-up assieme a Salé e, dopo qualche sosta, siamo a Beira. Prima di volare via da Beira conosciamo dei ragazzi italiani che ci hanno contattati dopo aver visto qualche nostra notizia sul web. Dei ragazzi super fighi, alcuni medici cazzuti in missione, uno skipper che suona con una band punk professionista e un altro traduttore di arabo, professore universitario: una bella sorpresa.
Mentre gli altri rientrano a casa, per me il periodo africano ancora non è finito. Il giorno dopo la loro partenza prendo un aereo con destinazione Windhoek, la capitale della Namibia, dove mi raggiungerà Virginia, la mia ragazza, per due settimane di vacanza tra deserti surreali, coste selvagge, montagne maestose e straordinaria fauna selvatica.
Concludo facendo qualche considerazione su questo Phandambiri: con molta probabilità, a parte tipi della guerra civile che si sono raspati su per i cespugli, siamo i primi scalatori in questa zona. È stato possibile arrivare a scalare qui grazie alla mediazione di Anna e alla compagnia Helpcode con la quale lavora Julius, che ci hanno messi in contatto con i vari capi.
Questo è stato fatto sia perché non si sarebbe conosciuta la loro reazione nel momento in cui avrebbero scoperto quello che stavamo andando a fare, ma soprattutto per rispetto della loro montagna e del loro territorio.
Sono abbastanza sicuro che questo sito abbia del potenziale per diventare un luogo dove, in futuro, potranno venire altri scalatori o escursionisti.
La montagna è bella e grande, ha ancora pareti e linee vergini, il clima è clemente, la logistica è semplice e non ci sono nemmeno troppe mosche o zanzare. Unica cosa che manca sono le fessure e al sole è caldino per scalare bene, anche se spesso l'aria e le nuvole potrebbero salvare.
Realisticamente parlando, per le prossime persone che vorranno visitare il Phandambiri non sarà necessario fare tutto il giro che abbiamo fatto noi. Parlando con Luchigno, il proprietario della riserva, potrebbe essere solamente necessario contattare lui, che si prenderà la briga di fare tutti i vari passaggi burocratici, si spera.
Per lui già lavorano dei ragazzi di Dzembe, di Macossa e di altri villaggetti, e se dovesse aumentare il lavoro per via del maggiore turismo arrampicatorio, potrebbe essere una bella fonte di guadagno per tutti e magari una possibilità lavorativa per più persone.