Peter Hámor e Nives Meroi in vetta al Kabru. © Archivio Meroi/BenetSono rientrati sabato 17 maggio nella amata Fusine, gli alpinisti Nives Meroi e Romano Benet, portando con sé la gioia di una nuova via aperta in tranquillità assieme allo slovacco Peter Hámor sull’inesplorato versante nepalese del Kabru (7412 m), uno dei settemila della catena del Kangchenjunga.
I tre alpinisti, ormai un team ben rodato e affiatato, erano partiti con l’obiettivo di scalare anche lo Yalung Peak (7590 m) che avevano tentato la prima volta nel 2024, ma nemmeno quest’anno c’erano le condizioni per intraprendere quel progetto.
Hanno classificato la nuova via, un itinerario di 2300 metri di dislivello, di difficoltà D e l’hanno chiamata Himalayan Trad, per sottolineare la grande differenza che percepiscono tra l’alpinismo che praticano da sempre e l’assalto organizzato delle spedizioni commercialio sponsorizzate che assediano gli Ottomila. Poco lontano da loro, a due ore di cammino, c’era il campo base per il Kangchenjunga, con un continuo andirivieni di elicotteri.
“Evidentemente - ha chiosato Nives alla fine della nostra breve intervista telefonica, commentando la percezione di questa differenza di approccio - siamo dei dinosauri e così ci cerchiamo il nostro Jurassic Park dove poter giocare liberamente”.
Romano, il vostro progetto iniziale era quello di tentare lo Yalung Peak, cosa vi ha fatto desistere?
Abbiamo avuto il tempo di osservarlo durante la salita e la discesa al Kabru: le condizioni per salirlo quest’anno erano orribili. C’era troppa neve lungo tutta la parete, che, lo ricordo, è lunga 2700 metri. Ci è andata bene già una volta, meglio lasciar perdere.
Quanto sono vicine le due salite, quella del Kabru e quella dello Yalung?
A occhio e croce un paio di chilometri: le due salite si trovano da una parte e dall’altra dello stesso ghiacciaio.
Quella al Kabru doveva essere una salita di acclimamento nelle vostre intenzioni.
Sì, così è stato. Quando siamo arrivati non c’era neve, le pareti erano dappertutto ricoperte di ghiaccio. Poi è cominciato a nevicare. Nevicava più o meno ogni giorno al pomeriggio. Alla fine la parete era rivestita da circa un metro di neve fresca, spesso ventata. Era tutto ovattato perché la neve è rimasta attaccata. Infatti anche al Kangchenjunga sono riusciti a salire solamente ieri sulla cima per gli stessi motivi.
Romano Benet in cima al Kabru © Archivio Meroi/BenetNessuno era mai salito dal versante nepalese del Kabru prima.
A fine anni Ottanta c’erano stati due ragazzi sloveni, erano lì senza permesso con una spedizione che era nella zona, ma non sono stati più ritrovati. E quindi non si sa nemmeno se siano saliti, né dove o fino a che punto.
C’era la possibilità di imbattersi in qualche loro traccia?
Speravamo di trovarne, ma ci siamo imbattuti invece parti di corde fisse nella parte bassa: dubito fossero degli sloveni scomparsi, che arrampicavano solo in due e in stile alpino. Forse qualcuno ha tentato di nascosto qualcosa, ma nessuno ha informazioni in merito.
Come si è svolta la salita?
Non è una salita con grandi difficoltà, tutto sommato semplice come itinerario, solo che ha un tratto molto lungo. Avevamo una tenda in tre e abbiamo fatto due campi in salita e uno in discesa. Una settimana prima siamo saliti il più possibile per lasciare la tenda al Campo 1, siamo arrivati fino a 5800 metri e poi ci siamo ritirati a causa del troppo vento. Abbiamo smontato la tenda e l’abbiamo riposta sotto un seracco. Poi il giorno della salita siamo arrivati fin lì, dove abbiamo dormito e siamo saliti fino a 6300 metri per il secondo campo.
Un momento della salita © Archivio Meroi/BenetCome mai avete salito “solo” 500 metri di dislivello il secondo giorno?
Il tratto fino al campo due aveva molto sviluppo, che non era visibile dal basso, ed era molto crepacciato. Abbiamo dovuto fare molti aggiramenti di crepacci e lungo il percorso c’era neve abbondante, quindi è stato faticoso incedere.
E il terzo giorno?
Siamo partiti alle tre del mattino dal campo due e siamo arrivati in cima alle cinque del pomeriggio, anche lì battendo neve in cui si sprofondava ben oltre il ginocchio. In cima c’era una specie di bufera: niente panorama. Alle sei del pomeriggio è venuto buio e durante la discesa il vento aveva completamente cancellato le nostre tracce. Non riuscivamo a trovare la nostra tenda finché finalmente, alle 23, abbiamo potuto riposare un po’ al riparo della stessa.
Sulla cima cosa c’è?
È una sorta di dosso, una spianata, anzi una mezzaluna. Dalla parte indiana c’è un grandissimo seracco di un centinaio di metri con una grande cortine e da quello nepalese il pendio che arriva su lungo la cresta.
Quanto avete impiegato a scendere al campo base?
Circa cinque - sei ore dal bivacco a 6200 al campo base.
Una bella via?
Sì molto bella, non difficile come ho già detto, ma lunga.
Perché l’avete chiamata Himalayan Trad?
L’abbiamo chiamata Himalayan Trad nel senso di “arrampicata pulita” così come è il nostro modo di andare per i monti. E anche perché al Kancghenjunga continuava ad andare avanti e indietro l’elicottero. Ogni mattina di bel tempo c’era l’elicottero: han fatto una cinquantina di voli e se non ricordo male c’erano quaranta permessi di salita.
Nives Meroi in salita © Archivio Meroi/BenetAvreste avuto il tempo materiale per tentare lo Yalung?
Si se il tempo fosse stato bello sì. Bastavano due giorni di riposo e con quell’acclimamento saremmo andati su bene.
Sei dispiaciuto di questa rinuncia forzata?
Abbiamo fatto talmente tanta fatica sul Kabru che se pensi di farla anche dall’altra parte non ti viene voglia.
Nives, sei d’accordo?
Sì. Lo Yalung sicuramente è una parete attraente e la via che la sale è estremamente logica, ma viste le condizioni, anche no. Direi che non ho rimpianti. È un lunghissimo canale, ci sono fasce di roccia dove l’anno scorso c’era neve e due grandissimi seracchi, uno a metà parete e l’altro in cima. Quello alto su si è spaccato e c’è un pezzo che pende: non è che ti avvisa quando crolla… e noi non abbiamo più l’età per andare a prenderci tutti quei rischi per la gloria.
Anche tu hai battuto traccia?
Certo! Ognuno ha dato il suo contributo. E se non ci fosse stato il cambio di tutti e tre, non si arrivava. Magari ho un paio di chili in meno nello zaino, ma le cose che sono da portarsi sulle spalle sono quelle e i maschi non sono i miei climbing sherpa.
E la tua posizione in tenda era sempre vicino all’uscita, con due paia di piedi ai lati?
(ride) La disposizione funziona.. ma c’è lo svantaggio in quanto essendo io verso l’ingresso della tenda mi ritrovo a dover, guarda caso, spignattare di primo mattino dopo aver raccolto la neve fuori, in un ruolo domestico d’alta quota.
In salita © Archivio Meroi/BenetComunque è stata una via di salita dove è filato tutto liscio, al netto del panorama dalla vetta?
La via tecnicamente non è difficile. A parte la neve fresca da battere ci sono una infinità di crepacci e bisogna cercare il percorso. Quindi le difficoltà, a parte un paio di tiri di misto tra roccia e neve, sono più ambientali che altro.
Sulla cima siamo arrivati che il cielo si è chiuso e non abbiamo avuto il piacere di guardarci intorno ma, scendendo, si è aperto tutto ed era veramente uno spettacolo bellissimo.
Unica nota stonata il traffico aereo sulle vostre teste a poca distanza da voi. È peggiorato dal 2024?
Quell’andirivieni era fastidioso, certo.
E dire che l’aspetto più assurdo è che le nuove regole prevederebbero l’uso di elicotteri in due occasioni: a inizio stagione per allestire i campi e portare i materiali, migliaia di metri di corde e così via; e l’altra per il soccorso. Invece è tutto un continuum: penso che nessuno abbia fatto il trekking a piedi.
A questo proposito: ora è in arrivo la spedizione dello Xenon e vedremo l’evoluzione della deriva…
Voi andate avanti per la vostra strada.
Continueremo a cercare percorsi che ci tengano lontani dalle zone battute dalle spedizioni commerciali. Non c’è possibilità di dialogo con le spedizioni commerciali, con i loro clienti e con i climbing sherpa. A noi interessa cercare un altro tipo di montagne, magari non così alte, perché i costi le fanno diventare appannaggio di gente danarosa o sponsorizzata e per noi sono proibitive. Quelle più basse sono più abbordabili e soprattuttohanno il vantaggio di poterle salire come ci viene, senza dover sottostare a regole di corde fisse, pagamenti, baruffe, code e avere a che fare con persone che pensano che le montagne si salgano con elicottero, ossigeno, corde fisse, climbing sherpa.
Evidentemente siamo dei dinosauri e ci cerchiamo il nostro Jurassic Park dove giocare liberamente.