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Sul terzo gradino del podio maschile nelle gare di SportRoccia 85 c'era un alpinista di quelli duri e puri. Difficile immaginarlo oggi, in un'epoca in cui anche i più forti scalatori su roccia del mondo rischiano di sfigurare quando si cimentano nelle competizioni…
D'altra parte, a quei tempi, il modello umano dello sport climber era ancora tutto da inventare, e l'elenco degli atleti e delle atlete che si sfidarono sulle rocce della Parete dei Militi è costellato da nomi legati tanto alle salite di gradi estremi in falesia, quanto a quelle delle grandi vie delle Alpi e non solo.
Tra questi anche il francese Thierry Renault, il terzo classificato, appunto, dietro a due specialisti dei microappigli come Stefan Glowacz e Jacky Godoffe.
Lo abbiamo ritrovato qualche tempo fa sotto la stessa parete, in occasione delle celebrazioni dei quarant'anni di SportRoccia organizzate dal CAI in collaborazione con la Polisportiva e il Comune di Bardonecchia.
"Non avrei mai pensato di arrivare su quel podio - ci ha confidato - Ero arrivato lì per curiosità, per gioco. Tempo prima avevo partecipato ad una gara a Yalta, in Russia, e l'esperienza era stata molto divertente, quindi pensai: ‘Perché no?’. In quegli anni ero focalizzato sulla salita di vie di roccia in ambiente, ma ero giovane, ancora non avevo cominciato a lavorare come Guida Alpina e avevo molto tempo e voglia di sperimentare… Beh, direi che, come esperimento, è andato molto bene!".
Un minimo di contestualizzazione storica è doveroso: nei primi anni ’80 Thierry era uno dei ragazzi terribili dell'alpinismo francese, uno di quelli che, una dopo l'altra, stavano mettendo in fila le prime salite in arrampicata libera delle più difficili vie del massiccio del Monte Bianco. Una nuova visione e nuovi obiettivi, per raggiungere i quali l'allenamento e la tecnica affinate nella nascente arrampicata sportiva si rivelarono essenziali, come ricorda lui stesso.
"Sono nato in Bretagna, molto lontano dalle montagne, ma poi ho vissuto a Parigi per alcuni anni. Lì mi sono appassionato alla scalata sui massi di Fontainebleau, che per me sono stati una super scuola di evoluzione del gesto. Lì è nata una passione per la roccia e per la scalata pura, che mi ha sempre accompagnato. Anche quando i miei obiettivi e i miei sogni si sono focalizzati sulle vere montagne ho sempre continuato a frequentare assiduamente le pareti di fondovalle e le falesie. Quando in montagna c'era brutto tempo, saltavo sul mio furgone e andavamo verso il sud della Francia, o verso Finale Ligure. A quei tempi nel tunnel del Bianco non c'erano i limiti di velocità e i controlli della polizia stradale non erano così severi: in un paio di ore da Chamonix ero in vista del mare… Invece l'altissima montagna non mi ha mai incantato allo stesso modo. Per me quell'ambiente aveva qualcosa di troppo stressante, opprimente. Le montagne himalayane non sono mai state nei miei sogni, forse perché allora le vedevo ancora come il regno degli 8000, delle spedizioni pesanti, della fatica enorme e ripetitiva. Negli anni ’80 ancora non erano chiare le splendide possibilità offerte per la scalata pura dalle grandi pareti di roccia come le Torri di Trango, con le loro fessure perfette".
Sulle pareti alpine, invece, Thierry ha trovato il terreno ideale dove coniugare il suo desiderio d'avventura e la passione per la scalata più tecnica:
"Quando ho preso consapevolezza delle potenzialità e del livello tecnico e atletico che stavo raggiungendo grazie all'arrampicata sportiva in falesia, il mio obiettivo è diventato quello di salire in libera le grandi vie del massiccio del Monte Bianco. Credo di poter dire di essere stato tra i primi ad avere questa visione. Nel 1983 ero con Eric Escoffier sulla Bonatti-Ghigo al Petit Capucin. Ci trovammo lì con Jean Baptiste Tribout e David Chambre, casualmente, nello stesso giorno e con lo stesso obiettivo: fare la prima libera della via. Il punto cruciale fu il famoso muro di 40 metri. Tribout e Chambre riuscirono a salirlo in completa arrampicata libera, ma fui io ad affrontarlo per primo, individuando la variante che poi consentì a loro di passare. Dopo un paio di resting vidi una fessura sulla sinistra e cominciai a salirla. Con gli attrezzi che avevamo allora era impossibile piazzare protezioni, così salii per almeno 15 metri senza mettere nulla, credo su difficoltà attorno al 6c, per poi traversare sopra al tetto e rientrare sulla linea originale della Bonatti. Non riuscii a fare l'intero tiro in libera, ma quella rimane sicuramente una delle mie performance più impegnative e di cui vado orgoglioso".
Poco dopo quella salita, fu lui ad aggiudicarsi, sempre con Escoffier, la prima libera della via Americana all'Aiguille du Fou e, due anni più tardi, centrò l'obiettivo anche su un'altra via mitica del Bianco: la Direttissima Americana dal Dru.
"La libera della Direttissima Americana la considero il mio capolavoro, assieme a quella di qualche anno più tardi su Divine Providence - commenta - Andai al Dru con un triplice intento: il primo, ovviamente, era di salire in libera, il secondo era di completare la via in giornata e il terzo era salire senza aggiungere chiodi a quelli già esistenti, usando solamente i nut per integrare le protezioni che già c'erano. In quel fantastico momento di grazia riuscii a centrarli tutti e ne raggiunsi anche un altro. Infatti, il mio compagno di cordata - Pascal Etienne - quel giorno non si sentiva bene, quindi tutti i tiri toccarono a me: tutti da primo e tutti in libera… Bingo! Una soddisfazione immensa, tanto più che la Direttissima è una via magnifica: se non fosse per un singolo passaggio molto pericoloso, oggi sarebbe una superclassica. Purtroppo c'è questo passo molto esposto sopra una terrazza. Lì gli apritori erano saliti sulla destra, su roccia marcia e con pessimi chiodi. Noi decidemmo di affrontare direttamente la placca e poi uno strapiombo, anche quello con roccia molto brutta, il tutto con ben poche possibilità di proteggersi e su una difficoltà attorno al 7a+...".
Un'altra specialità di cui Thierry è maestro indiscusso è la scalata su ghiaccio. Ha vissuto l'epoca esplorativa del cascatismo e il suo nome figura, accanto a quello di François Damilano, tra gli apripista de "La Lyre", una delle prime cascate di grado 7 delle Alpi.
Una passione, quella per l’ice-climbing, a cui lui dedica parole entusiastiche:
"Il ghiaccio è un elemento che amo almeno quanto la roccia e che va studiato, capito. Soprattutto sulle cascate più verticali diviene fragile, complesso, e non lo si può affrontare con un approccio brutale. Su terreni più appoggiati ti puoi permettere di sferrare colpi di piccozza e ramponi, per salire in qualche modo. Sul verticale, invece devi muoverti con delicatezza, con eleganza e intelligenza motoria, proprio come nelle scalate difficili su roccia. Devi leggere il terreno, interpretare le forme, un po' come si interpretano gli appigli. Non si tratta tanto di tirare piccozzate, quanto piuttosto di trovare agganci e direzioni di caricamento degli attrezzi che ti consentano di progredire con leggerezza. Trasportare lì quello che avevo imparato a fare in falesia è stato per me spontaneo e mi ha aperto le porte di una nuova dimensione, di un mondo incantato di candele, frange, cavolfiori strapiombanti e stalattiti, dove ho vissuto momenti anche di grande tensione e pericolo, ma sempre entusiasmanti, meravigliosi!".