Paul PreussErano i primi giorni d’autunno del 1913, presumibilmente il 3 ottobre. Quella sera Paul Preuss non fece ritorno a casa, la sua governante si allarmò – Paul era sempre così gentile e puntuale! – e avvertì Emmy Eisenberg, ora sposata Hartwich, che a sua volta chiamò i fidati amici Mina e Paul Rely; si organizzarono i soccorsi e lo cercarono nella prima neve con lo strazio nel cuore. Lo trovarono il 14 ottobre, ormai da giorni senza vita ai piedi dell’appicco calcareo del Gross Mandlkogel. Era caduto dallo spigolo nord, tentando la scalata solitaria. Aveva ventisette anni e un talento ancora in buona parte inespresso, anche se era già – e lo sarà per sempre – uno dei più geniali scalatori di tutti i tempi.
“Un amico che lo conosceva bene – scrisse il compagno di cordata Gilly – aveva predetto un incidente sulle montagne del Salzkammergut, dove Preuss scalava spesso e che sono difficili e friabili. Gli aveva detto di stare attento soprattutto al Sandlingturm, che frequentava sovente con gli allievi… Ma non fu il Sandlingturm che vide la fine di Paul, perché precipitò sul Mandlkogel. È stato terribile lo shock quando ho letto l’annuncio della sua morte, è stato tremendo il dolore della madre che non voleva credere all’accaduto. Suo figlio era stato ucciso da un infarto, da un malessere… non poteva essere precipitato!”
Poi venne la guerra e si portò via altri che, come lui, avevano sfidato le montagne. Una pallottola fatale colpì Hans Dülfer nel 1915, presso Arras. Sixt, uno dei migliori scalatori di Monaco, morì congelato durante una bufera; Rudi Redlich, la più grande speranza del giovane alpinismo viennese, cadde in Galizia. Chi fu risparmiato continuò a pensare per anni a quell’uomo così gracile, piccolo e biondo che sapeva destreggiarsi sulle pareti di roccia verticale e sul ghiaccio più insidioso, e che nella vita di ogni giorno era così simpatico e disponibile, e che sembrava promettere grandi cose nella scienza della fisiologia vegetale. Nonostante la giovane età, aveva già realizzato più di mille ascensioni, di cui trecento solitarie, con grandi prime sulle Dolomiti e sui calcari di casa. Almeno gli fu risparmiata la Grande Guerra, quello scontro fisico che – da gentiluomo e da cavaliere del gesto sportivo – avrebbe aborrito come una barbarie. Almeno, a guerra finita, non è stato possibile farne un mito dei regimi, uno di quegli sfortunati campioni della montagna destinati a diventare complici di un eroismo che non avevano mai condiviso e tantomeno sognato. Forse le parole più vere le ha scritte Kurt Maix dopo cinquant’anni: “Era tutto fuorché un arrampicatore acrobatico. Da bambino era così gracile che, quando lo visitava, il medico di famiglia scuoteva il capo. Ma quella debolezza infantile non alimentò in lui complessi da compensare e le montagne gli restituirono la salute. Andava in cerca di piante ed erbe come faceva la gente del suo paese. Imparò le loro canzoni, il loro modo di ridere. Chi non lo accolse tradì la parte migliore di sé”.