Adam Bielecki, Felix Berg ed Hervé Barmasse in cima. Foto Facebook Adam Bielecki
Foto Facebook Adam Bielecki
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Foto Facebook Hervé Barmasse
La linea di salita. Foto Facebook Adam Bielecki
Foto Facebook Hervé Barmasse
I tre in bivacco. Foto Facebook Hervé BarmasseÈ stata battezzata “Nepali Ice SPA” la nuova via aperta sull’imponente parete sud del Numbur Peak (6958 metri), nella valle di Rolwaling, in Nepal. La salita porta la firma dell’alpinista valdostano Hervé Barmasse, in cordata con il tedesco Felix Berg e il polacco Adam Bielecki. Si tratta della prima ascensione assoluta della parete, realizzata in stile alpino, senza l’impiego di corde fisse o campi preallestiti.
La cordata ha raggiunto la vetta il 19 ottobre, al termine di una salita valutata ED-, WI5, M4. La via si sviluppa lungo una linea di circa 1400 metri di dislivello e segue, nella parte iniziale, il tracciato tentato nel 2016 da una spedizione catalana, prima di deviare verso un itinerario più diretto e complesso.
L’ascensione è stata segnata da condizioni difficili e variabili, tipiche del periodo post-monsonico in Nepal. Nei giorni di attività, la squadra ha affrontato scariche di ghiaccio e pietre, vento teso e temperature in costante calo. Barmasse racconta che, durante la progressione, una pietra lo ha colpito alla spalla, ma la ritirata sarebbe stata ancora più rischiosa a causa delle cadute dall’alto.
Uno dei momenti sicuramente più critici è stato il bivacco forzato a 6900 metri, senza tenda né sacchi a pelo, con temperature attorno ai -25 °C e raffiche di vento fino a 60 chilometri orari. “Abbiamo resistito abbracciati per scaldarci – spiega Barmasse – cercando di mantenere la mente lucida. È stata la notte più difficile della mia vita in montagna”.
La salita era iniziata con un ulteriore imprevisto: Adam Bielecki non si sentiva bene già al campo base, accusando vomito e debolezza. Nonostante ciò, il gruppo ha deciso di partire insieme. “Siamo una squadra, proviamoci assieme” la frase di Felix Berg, riportata nel racconto di Barmasse. La scelta si è rivelata vincente: nonostante la fatica e il freddo, i tre hanno proseguito fino a pochi metri dalla vetta, dove la neve inconsistente ha reso gli ultimi tratti particolarmente lenti e delicati.
All’alba del giorno successivo, dopo una notte quasi insonne, la cordata ha ripreso la progressione, raggiungendo la cima del Numbur Peak. “Ci siamo guardati – scrive Barmasse – eravamo vivi, senza congelamenti. Avevamo una sola scelta: concludere la salita”.
Anche Adam Bielecki ha raccontato l’impresa sui social, con un tono più freddo: “Nei giorni 18 e 19 ottobre, la squadra internazionale composta da Hervé Barmasse, Felix Berg e me ha effettuato la prima ascensione, in puro stile alpino, della parete sud del Numbur, vetta di 6958 metri. Abbiamo tracciato la via ‘Nepali Ice SPA’, con difficoltà ED-, WI5, M4. Prometto che domani aggiungerò qualche dettaglio più personale, perché di emozioni in questa scalata non ne sono certo mancate”. Attendiamo allora di leggere il suo racconto.
Secondo Barmasse, il nome scelto per la via – “Nepali Ice SPA” – nasce proprio da quella notte estrema trascorsa al gelo, un “trattamento” che nessuno dei tre dimenticherà facilmente.
Il racconto di Hervé Barmasse
Insieme a Felix Berg e Adam Bielecki, abbiamo aperto una nuova via e realizzato la prima salita in stile alpino della parete sud del Numbur Peak, nella valle di Rolwaling, in Nepal.
Una scalata impegnativa, valutata ED- (Estremamente Difficile meno) con passaggi fino a VI, WI5 (ghiaccio verticale) e M4 (misto roccia/ghiaccio).
Abbiamo dovuto affrontare condizioni dure e imprevedibili: un bivacco a 6900 metri, senza tenda né sacco a pelo, con -25 °C e raffiche di vento fino a 60 km/h.
Da quell’esperienza estrema è nato il nome della nuova via: “Nepali Ice SPA”.
Il 19 ottobre abbiamo raggiunto la vetta del Numbur (6958 m).
Un’avventura intensa, tecnica e umanamente profonda, che porterò con me per sempre, di seguito il mio racconto.
È stata una salita a dir poco rocambolesca.
Arrivati all’attacco della parete, Adam non stava bene: vomito, debolezza, mancanza di forze. Ci guarda e ci invita ad andare avanti senza di lui.
Felix risponde: «Siamo una squadra, proviamoci assieme, se le cose non funzionano possiamo sempre tornare indietro e provare nei prossimi giorni».
«Grazie ragazzi.» La voce di Adam taglia l’aria, decisa.
Nella prima parte della parete seguiamo la linea più logica, quella già tentata dal team catalano nel 2016.
La scalata, fantastica, si snoda lungo una sequenza di cascate di ghiaccio spettacolari.
Poi, presto, l’incanto lascia spazio all’inquietudine: scariche di ghiaccio e pietre iniziano a piovere dall’alto, mettendo seriamente in dubbio la nostra incolumità.
Decidiamo di abbandonare la linea tentata dai catalani per un percorso più diretto, più difficile, più incerto.
È allora che una pietra, per mia grande fortuna, sceglie di colpire la mia spalla invece della mia testa.
Il dolore è forte, ma tornare indietro, sotto quelle scariche, sarebbe ancora più rischioso. Andiamo avanti.
Da lì in poi, metro dopo metro, la via diventa sempre più interessante, estetica, imprevedibile.
Le difficoltà della scalata ci entusiasmano sino a quando, negli ultimi duecento metri, salire significa letteralmente nuotare nella neve inconsistente, senza possibilità di proteggersi.
Rallentiamo, rischiamo, consapevoli che un passo falso significherebbe precipitare fino alla base della parete in pochi secondi.
Raggiungiamo i 6900 metri.
Da lì, è impossibile ignorare la voce della vetta che ci chiama.
Ma è tardi.
Ci spostiamo sotto una cornice di neve e decidiamo di bivaccare: senza tenda, senza sacco a pelo, senza cibo.
Adam ha con sé un telo d’emergenza sotto il quale ci ripariamo, seduti, coprendoci volto e piedi.
All’inizio scherziamo, ridiamo fiduciosi.
Poi il vento si alza, le raffiche toccano i 60 km/h, la temperatura scende rapidamente a -25°C.
Il silenzio cala.
Restiamo concentrati su un unico pensiero: sopravvivere.
Evitare il congelamento, resistere al freddo, passare la notte.
Per me, senza dubbio, la più difficile da quando scalo.
Le ore sembrano infinite.
Ci abbracciamo per scaldarci.
Adam resiste.
Io e Felix, di tanto in tanto, abbozziamo una battuta: la felicità, dicono, scalda il cuore.
All’alba ci guardiamo: siamo vivi. Nessun congelamento. Stiamo bene.
Ora dobbiamo decidere: trasformare tutto questo in un “bel tentativo” o portare a termine la prima salita in stile alpino della parete sud del Numbur.
L’alpinismo ci insegna: testa, sempre testa.
La vetta ci accoglie. Siamo felici.
È stata un’ascensione “thriller”, tecnicamente splendida, umanamente profonda.
Un’esperienza in cui, per ore, abbiamo messo alla prova la nostra resilienza e la nostra resistenza al dolore, al gelo.
Tecnicamente, si può anche essere pronti per salire qualsiasi cosa. Ma per un’avventura così, non lo si è mai abbastanza.
Alla fine, quello che resta è ciò che senti dentro: la passione per la vita e la consapevolezza che le scalate più difficili trasformano la vetta in un dettaglio, mentre sopravvivere agli elementi è la vera impresa.