Quella volta al Caporal, ricordo di Cristian Brenna

Enrico Camanni ricorda Cristian Brenna in un incontro sulla parete del Caporal (Valle Orco), in una giornata qualsiasi che oggi assume un valore diverso. Un saluto ricco di gratitudine e ammirazione.
Cristian Brenna

Itaca ti ha dato il bel viaggio,

senza di lei mai ti saresti messo

in cammino… (Kostantinos Kavafis)

In soggiorno ho una foto bellissima. L’ha scattata Andrea Gallo nella calda estate del 2003, lo stesso Andrea che ieri mi ha telefonato che Cristian era morto. La foto racconta di un giorno stupendo, anche se si sudava e il sole era africano. Valle dell’Orco, Caporal, Tempi moderni, Itaca del Sole. Ricordo ogni passo. Abbandonata la famosa lama staccata, ero naufragato nel mare di gneiss e la seconda sezione di Itaca mi batteva in testa come la pagina di un libro pronto a chiudersi su noi due. Io e Lella, mia moglie. A un tratto il film ha subito un’accelerazione e dal nostro stesso vuoto sono emersi quattro scalatori velocissimi, extraterrestri. Accarezzando l’idea di buttare le doppie per ritirarmi onorevolmente, ho salutato Cristian Brenna, Giovannino Massari, Andrea Gallo e Marco Ballerini. Tutti insieme sulla cengia che fu di Motti e compagni, il più arioso salotto della Valle dell’Orco.

Ero partito con la memoria del vecchio Caporal dove cantava il martello di Gian Piero Motti e di colpo sono due generazioni avanti, maglietta, braccia nude, muscoli scolpiti e Brenna che sale il muro di Itaca con dodici rinvii, senza toccare i chiodi. Due generazioni. Una danza. L’abisso. Con Lella affronto le fessure di Rattle Snake, a mezza strada tra i Tempi moderniItaca. Taglio in due la storia del Caporal e di Motti. Pochi metri e molti gradi più in là Brenna lievita sui fessurini del muro, Ballerini lo assicura e Giovannino assicura Andrea, appeso, mentre scatta le fotografie.

“Fermati Cristian, sei in ombra.”

“Posso andare?”

“Adesso, bene, ancora un chiodo, così è buona.”

“Cazzo si scivola!, non c’è l’aderenza dell’altro giorno.”

“L’hai provata troppe volte, ti sei rimbambito.”

“Hai ragione, un’altra foto e torniamo giù.”

Dopo un po’ scendiamo anche noi e girando nel vuoto penso: “Che ci faccio qui?”. Loro sono il presente, io appartengo al passato. Invece non va così, perché Cristian mi accoglie come un amico. Educato, sensibile, la giusta ironia. Siamo due persone, che altro? Beviamo una birra insieme e la vicinanza cresce, anche se non lo conosco. A casa mi rileggo quello che ha fatto e sbalordisco: ha vinto quasi tutto, ha scalato appigli invisibili, è il campione della plastica. E sbalordisco di più, negli anni successivi, quando lo scopro in Pakistan, in Patagonia, sul Cerro Pier Giorgio con Barmasse. Cazzo Cristian, l’hai ritrovata l’aderenza. Che strada, che storia! Lui ha invertito il viaggio – dall’arrampicata sportiva all’alpinismo – dimostrando che le regole non esistono, non devono esistere, e la creatività vince su tutto. Anche sui pregiudizi. Sempre con quella faccia pulita, ironica e non troppo seria, specie con se stesso, ha mostrato che la passione e l’intelligenza portano lontano: atleta, scalatore, soccorritore, guida, allenatore, e talmente aperto agli altri, al futuro e alla vita da passare, lui il campione, in secondo piano. Brenna era fatto così.

Questo ci mancherà tanto, Cristian, perché i primati restano ma non contano gran che. Ce l’hai insegnato tu.