Silvan Schüpbach: fallita la salita al Khatang. "Una lezione di umiltà"

Rientrato dal Nepal dopo il tentativo alla parete sud inviolata del Khatang, l’alpinista svizzero racconta una spedizione segnata da maltempo e problemi in quota. “Un’esperienza difficile, ma ricca di insegnamenti e motivazione per le prossime avventure.”

Si è conclusa da qualche settimana l’ultima spedizione himalayana dell’alpinista svizzero Silvan Schüpbach, impegnato insieme a Filippo Sala e Stephan Siegrist nel tentativo di salire l'inviolata parete sud del Khatang (circa 6800 metri). L’obiettivo, ambizioso e tecnico, si è però dovuto arrendere a una combinazione di maltempo e problemi di quota, in un viaggio che ha comunque lasciato all’alpinista “una grande lezione di umiltà e motivazione per le prossime spedizioni”.

Tutto è iniziato con un rapido trasferimento da Kathmandu al campo base in soli tre giorni, grazie a una logistica impeccabile. Ma fin da subito, il monsone ha condizionato l’avvicinamento: “Il monsone era ancora in piena attività, quindi abbiamo passato molto tempo in tenda e non potevamo vedere quasi nulla delle montagne”, ha raccontato Schüpbach. Le condizioni meteo proibitive hanno accompagnato anche la fase di acclimatazione, ostacolata da nevicate e da alcuni problemi con il mal di montagna.

 

La distruzione del campo base

Nel secondo atto della spedizione, le difficoltà si sono fatte drammatiche. Una enorme tempesta di neve ha colpito il Nepal e l’Himalaya. Per fortuna siamo riusciti a fuggire in un rifugio vicino” scrive l’alpinista. Mentre il gruppo trovava riparo, i cuochi smontavano il campo base sotto una bufera. Sembra che nevicasse “come all'inferno” ricorda Schüpbach.

Quando il tempo finalmente è migliorato, il trio ha ricostruito il campo base e tentato un nuovo round di acclimatazione. Ma la montagna non ha concesso tregua: a 5300 metri hanno scoperto che il deposito di materiali era stato travolto da un crollo di ghiaccio. “La nostra attrezzatura era quasi sepolta dai detriti di un seracco crollato”. Nonostante ciò, hanno proseguito fino a 5600 metri, affrontando due giornate estenuanti “a causa della traccia da aprire in tanta neve”.
Sembrava l’inizio della ripresa, ma di nuovo un problema: “Tutta la fiducia è svanita, poiché ancora una volta qualcuno ha iniziato ad accusare i sintomi del mal di montagna. Così il ritorno anticipato al campo base è stato inevitabile.

 

La resa e la riflessione finale

“Il tempo ora era eccellente. Ho trovato molto difficile trascorrere questo tempo senza fare nulla” racconta Schüpbach pensando agli ultimi giorni trascorsi al campo base. Dopo vari tentativi di elaborare un piano alternativo, la squadra ha dovuto arrendersi alla realtà: tra i permessi mancanti e le condizioni fisiche dei compagni, “le possibilità di successo erano molto piccole – indipendentemente da ciò che avessimo deciso”.

La spedizione si è dunque conclusa senza vetta, ma con l'arricchimento di un’esperienza profonda. "È arricchente conoscere culture straniere e superare le difficoltà. Ho imparato molto e sono ancora più motivato a dare il massimo nel mio prossimo viaggio” scrive Schüpbach. L’alpinista svizzero ammette anche di aver riscoperto il valore del fallimento: “Dopo i molti successi degli ultimi anni, mi rendo conto solo ora di quanto davo per scontato di raggiungere la vetta alla fine di una spedizione”.