Stop alle ricerche sul Pobeda. Si poteva fare di più?

Le ricerche dell’alpinista russa Natalia Nagovitsyna, dispersa dal 12 agosto sul Pobeda, sono state chiuse dalle autorità kirghise che ne hanno dichiarato la morte, annullando anche il recupero di Luca Sinigaglia. Restano interrogativi sul mancato tentativo di soccorso.
Natalia Nagovitsyna

Le ricerche dell’alpinista russa Natalia Nagovitsyna, dispersa sul Pobeda da ormai diversi giorni, sono state chiuse dalle autorità del kirghizistan che hanno dichiarato la morte dell'alpinista. Di conseguenza anche il recupero del corpo dell'italiano Luca sinigaglia è stato annullato. Sulla montagna più alta della catena del Tien Shan, al confine tra Kirghizistan e Kazakistan, resta l'amaro per quello che si sarebbe potuto fare, per una vicenda segnata da speranze interrotte dalle decisioni politiche.

Secondo le informazioni ricevute da fonti più che attendibili, Natalia Nagovitsyna era ancora viva il 19 agosto: esisterebbe un video che la mostra mentre si muove e tenta di segnalare la sua presenza. Un fatto non raro. Esistono infatti alcuni casi documentati, in Himalaya, che hanno dimostrato come anche in condizioni di ipotermia grave un alpinista può sopravvivere per molte ore o addirittura giorni se protetto in una tenda o all’interno di un sacco a pelo. Natalia si trovava sulla montagna dal 12 agosto, impossibilitata a scendere a causa di una frattura alla gamba. Era bloccata a circa 7100 metri di quota e le autorità kirghise hanno supposto il decesso per ipotermia.

 

La richiesta e la gestione del soccorso

La richiesta di soccorso era stata presa in carico con urgenza da un’agenzia internazionale attiva in Kirghizistan che aveva allertato un team di specialisti. La squadra, composta da piloti, tecnici e alpinisti di provata esperienzatra cui italiani e professionisti locali – aveva ricevuto inizialmente l’autorizzazione a intervenire. In seguito, permessi e via libera operativi sarebbero stati revocati per motivi burocratici e politici.

Secondo quanto riferito il gruppo era pronto a rientrare senza poter nemmeno tentare l’avvicinamento. Poi è arrivato un segnale di apertura e il team si è nuovamente mobilitato: con un elicottero partito da Biškek, hanno raggiunto il campo base di Karkara, punto da cui normalmente si effettuano i voli verso il Pobeda. Lì hanno elaborato un piano operativo, nonostante il maltempo in quota. Durante la notte però, un nuovo stop imposto dalle autorità kirghise ha bloccato ogni attività. La motivazione ufficiale era che la donna fosse ormai deceduta, e che le condizioni meteo non permettessero ulteriori operazioni.

La versione però non coincide con le previsioni meteorologiche fornite da esperti italiani alla squadra di soccorso pronta a volare. Secondo queste già dalla mattina del 25 agosto si sarebbero aperte finestre di bel tempo, utili per un volo di ricognizione e per il dispiegamento di droni da ricerca. Di fatto il team ha dovuto interrompere la missione e riconsegnare l’elicottero, senza mai avere la possibilità di raggiungere la zona in quota.

La vicenda resta dolorosa non solo dal punto di vista umano, ma anche per i tanti interrogativi che rimangono aperti. Dalle informazioni raccolte emerge il dubbio che un tentativo concreto di soccorso in quota non sia mai stato realmente messo in atto, con ogni probabilità più per ragioni burocratiche e politiche che per le reali condizioni della montagna.
La storia più o meno recente ci insegna però che le operazioni di salvataggio possono funzionare se c’è la volontà di farle funzionare. Le competenze e i mezzi esistono, ciò che manca talvolta è la decisione di metterli in campo. Per quello servono la volontà politica e organizzativa, almeno per poter dire: è stato fatto tutto il possibile.