Storia e sfide future del camoscio appenninico nel PNALM, intervista alla biologa Roberta Latini

Il camoscio appenninico è uno degli animali simbolo del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise, salvato sull'orlo dell'estinzione un secolo fa. La biologa del Parco, Roberta Latini, ci racconta successi e difficoltà di 100 anni di conservazione della sottospecie.

Pochissime specie o sottospecie animali endemiche dell’Italia, possono raccontare una storia di conservazione tanto drammatica e vincente quanto il camoscio appenninico (Rupicapra pyrenaica ornata). All'inizio del Novecento, la sottospecie si trovava sull'orlo del baratro: l'intera popolazione era ridotta a un nucleo irrisorio di poche decine di esemplari, confinato nel cuore di quello che sarebbe diventato il Parco Nazionale d'Abruzzo, istituito ufficialmente nel 1923, e dal 2001 denominato Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM).

La nascita dell’area protetta consentì alla popolazione residua di camoscio di iniziare una lenta ma costante ripresa. Negli anni Novanta furono raggiunti numeri tali da rendere fattibile l’avvio delle prime reintroduzioni nelle aree della Maiella e del Gran Sasso, seguite negli anni 2000 da Sibillini e Sirente-Velino. Oggi la popolazione appenninica ha superato i 3.500 esemplari, diffusi in cinque nuclei vitali (PNALM, Maiella, Gran Sasso, Sibillini e Sirente-Velino). E mentre l’areale si espande, il PNALM si concentra nella salvaguardia della popolazione storica.

Annualmente, nella stagione estiva e autunnale, viene condotto il monitoraggio demografico del camoscio appenninico, strumento essenziale per comprendere lo stato di salute della sottospecie. Abbiamo chiesto alla biologa del PNALM, la Dott.ssa Roberta Latini, di raccontarci il ruolo centrale svolto dal Parco nel salvataggio della sottospecie, in cosa consista esattamente il monitoraggio, quali informazioni fondamentali siano in grado di fornire i dati raccolti e quali siano i nuovi fattori di rischio che disegnano il futuro del camoscio appenninico.

 

Il camoscio appenninico è una sottospecie che ha rischiato l’estinzione agli inizi del secolo scorso. Può raccontarci come sia stato possibile invertire la tendenza?

Il camoscio appenninico è la ragione per cui è nato il PNALM. Nel 1921, allo scopo di garantire la conservazione del camoscio, fu infatti creato, in forma privata mediante concessioni comunali, il primo nucleo di quello che, nel gennaio 1923, sarebbe diventato ufficialmente il Parco Nazionale d’Abruzzo. All’inizio la sottospecie appenninica si pensava che derivasse dal camoscio delle Alpi, in realtà nel tempo si è scoperto che derivi dal camoscio dei Pirenei, una specie più antica, probabilmente migrata durante il periodo glaciale fino alla dorsale appenninica. Nel periodo tra le glaciazioni possiamo immaginare che sia rimasta solo nelle aree montane, per poi andare incontro a una progressiva estinzione lungo l’Appennino, a causa di una persecuzione per mano umana. Negli anni Venti del Novecento, la popolazione appenninica si era ridotta a circa 20/30 esemplari, un numero davvero irrisorio, concentrati nel cuore di quello che è oggi il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, nella zona della Camosciara, tra i comuni di Opi e Civitella Alfedena. 

Successivamente, in conseguenza dell’ampliamento dell’originario Parco Nazionale d’Abruzzo, la presa in gestione dei pascoli, l’istituzione delle aree di riserva integrale e il controllo del turismo, la popolazione è aumentata e ha iniziato a espandersi entro i confini dell’area protetta. Negli anni Novanta, il numero di esemplari era cresciuto abbastanza (fino a circa 200-300 esemplari) da ritenere possibile l’avvio di operazioni di reimmissione nelle aree della Maiella (1991) e del Gran Sasso (1992). Ad essere trasferiti furono in parte camosci cresciuti in cattività, in aree faunistiche realizzate dal Parco a scopo di ripopolamento, in parte camosci prelevati nella Val di Rose. Nel 1998 sono state poi avviate le reintroduzioni nei Sibillini, ma il Parco è stato costretto a interromperle per alcune problematiche emerse durante le catture, riguardanti la popolazione storica. Pertanto, il testimone è passato ai Parchi della Maiella e del Gran Sasso, che negli anni a seguire hanno gestito le reintroduzioni nelle zone dei Sibillini e del Sirente-Velino.

 

Un bel gioco di squadra!

Sì, tra l’altro tra il 2010 e il 2014 è stato condotto un progetto importantissimo, il LIFE Coornata, che ha visto i Parchi della Maiella, Gran Sasso, Sibillini e Sirente-Velino attrezzarsi per imparare a catturare i camosci, al fine di completare le reintroduzioni di cui parlavamo poco fa. Mentre il PNALM ha avuto occasione di concentrarsi nello studio della popolazione storica del camoscio, approfondendo gli aspetti sanitari, la dinamica di popolazione o ancora la potenziale competizione con altre specie, come il cervo.

 

Annualmente nel Parco viene svolto il monitoraggio demografico del camoscio. Può spiegarci qual è la metodica utilizzata?

Il monitoraggio viene condotto nel PNALM dagli anni Novanta, mediante applicazione di una tecnica che si chiama block-census, utilizzata da chi si occupa in senso più ampio di monitoraggio degli ungulati di montagna, in particolare camoscio e stambecco. Le zone montane vengono divise in settori e ad ogni operatore viene assegnato un settore di osservazione. Usando binocolo e cannocchiale, gli operatori procedono al conteggio e alla classificazione dei camosci presenti nel settore. L’osservazione si ripete nel medesimo settore per 2 giorni consecutivi. Può capitare che vi siano anche più operatori per settore, ognuno dei quali è posizionato in un punto di vantaggio, in questo caso operano in contemporanea e comunicano tra loro, per evitare doppi conteggi. 

 

La classificazione come viene effettuata?

La classificazione è la parte più complessa del monitoraggio. Partiamo col dire che i camosci sono dotati di corna in entrambi i sessi, pertanto, già comprendere a distanza se l’animale sia maschio o femmina, non è facile. Ci sono una serie di dettagli che possono orientare nella classificazione ma dobbiamo sempre tenere a mente che l’osservazione si svolge col binocolo e cannocchiale, quindi bisogna avere occhio ed esperienza. Le differenze possono essere identificate nello spessore del corno, nel profilo ventrale, nella postura e dimensione dell’esemplare, nella presenza del “pennello”, che è un ciuffo di peli alla base del pene, dunque caratteristico del maschio, oppure la presenza delle mammelle nelle femmine. 

Superato il primo ostacolo, compreso quindi se l’animale che stiamo osservando è maschio o femmina, il secondo problema è identificarne la classe di età. Immaginando di avere a disposizione un animale addormentato, per distinguere la classe andremmo a contare gli anelli di accrescimento del corno. Ma siccome noi non utilizziamo metodiche invasive, ma analizziamo gli animali a distanza, dobbiamo necessariamente optare per un metodo di stima alternativo. Nel dettaglio, si vanno a osservare l’altezza delle corna, quella delle orecchie, e si mettono in rapporto tra loro. Vengono classificati come capretti gli esemplari che hanno un abbozzo di corna. A seguire abbiamo gli esemplari di 1 anno, che presentano delle corna più sviluppate rispetto ai capretti ma più corte rispetto alle orecchie. Poi la classe 1 (da 2 a 3 anni), in cui le corna appaiono alte quanto le orecchie o poco più e la classe 2 (3-6 anni), in cui le corna sono lunghe circa 1 volta e mezza le orecchie. Gli esemplari che hanno le corna alte almeno il doppio delle orecchie vengono considerati di classe 3. 

 

Dagli anni Novanta ad oggi la metodica è rimasta invariata?

In termini tecnici sì. Ma dal momento che la distribuzione del camoscio all’interno del Parco si è modificata, nel corso degli anni abbiamo ampliato le zone di osservazione, implementando nuovi percorsi. Ad esempio, il percorso 30, che è quello storico, è rimasto invariato. Il percorso 1, che inizialmente era un unico itinerario, a seguito dell’espandersi del camoscio, è stato suddiviso in due sottopercorsi, denominati 1 a e 1 b, per mantenere il riferimento con il percorso originario. Inoltre, abbiamo introdotto in alcune aree campione un monitoraggio di durata doppia, ovvero 4 giorni al posto di 2, che funge da sottocampionamento. La ragione risiede nel fatto che lavoriamo con 30-40 operatori diversi, ognuno con una propria capacità di osservazione e classificazione degli animali. Può capitare che, nell’incertezza della classificazione, qualche operatore indichi in maniera generica “maschio adulto” o “femmina adulta”, senza specificare la classe di appartenenza. La presenza di questi esemplari, che definiamo “indeterminati”, diventa limitante per la ricostruzione della struttura della popolazione, ovvero sapere quanti siano i maschi e le femmine di ciascuna delle classi, parametri che ci permettono di capire come sta la popolazione, in maniera più approfondita. Per ridurre il numero degli indeterminati, i tecnici vengono coinvolti in questi conteggi ripetuti in quadruplo, per ogni percorso.

 

Lo stato di conservazione della sottospecie come appare?

Lo stato di conservazione è sicuramente migliorato nell’arco di un secolo. Nei primi anni Novanta era stata lanciata una campagna ribattezzata “2000*2000*2000” che prevedeva di avere 2.000 camosci oltre 2.000 m entro il 2000. Oggi siamo sui 3.500 esemplari in tutto l’Appennino, suddivisi in 5 nuclei (PNALM, Maiella, Gran Sasso, Sibillini e Sirente-Velino). La popolazione nel PNALM mostra dei numeri significativi rispetto sia ai 20 esemplari del 1921 sia ai circa 300 presenti a inizio anni Novanta. Come anticipavo, all’interno del Parco abbiamo osservato variazioni di distribuzione. L’area storica si è quasi svuotata e sono state colonizzate altre zone, quali il Monte Marsicano, i Monti della Meta - Mainarde e la zona delle Gravare. 

 

Nell’era del cambiamento climatico, il futuro del camoscio appenninico come appare? 

Sono argomenti che stiamo approfondendo ma sicuramente la popolazione dell’Appennino, che vive e ha bisogno di alte quote, potrebbe avere problemi in futuro. A paragone, il camoscio alpino o lo stambecco possono salire in quota, in risposta all’innalzamento termico, perché dispongono di montagne più alte. Nel PNALM le cime più alte si attestano attorno ai 2.200 - 2.250 metri. Altro tema che stiamo approfondendo sono gli effetti della temperatura e della piovosità sulla vegetazione dei pascoli, in quanto il camoscio è una specie che vive sui pascoli d’alta quota. Ad esempio, lunghi periodi di aridità portano le piante a seccarsi, oppure ci sono specie, cruciali in particolari fasi della vita del camoscio, come l’allattamento, che anticipano o posticipano lo stato vegetativo in funzione del clima. Sono questioni che stiamo ancora verificando ma abbiamo la netta sensazione che possano rappresentare un problema. Il camoscio è una specie che ha bisogno di fresco, lo potete notare facilmente andando in montagna tra maggio e giugno. Se ci sono scampoli residui di neve, li trovate lì.

 

Oltre al cambiamento climatico, ci sono altri fattori di rischio per la conservazione della specie?

I fattori che possono influenzare lo stato di conservazione del camoscio sono davvero tanti. E non è facile comprenderne gli effetti sulla popolazione. Nel Parco stiamo assistendo a una modifica dei paesaggi, mediata in parte dal clima in parte dall’uomo. Nel tempo si è ad esempio modificato il tipo di pascolo, che un tempo era basato su ovini e caprini e oggi si è esteso a bovini ed equini, animali più pesanti e che hanno modalità di brucatura diverse. Vi sono inoltre zone in quota dove stanno tornando le specie arbustive, in conseguenza delle temperature elevate ma anche dell’abbandono. E considerando che le specie selvatiche si sono evolute insieme ai paesaggi rurali e montani, questa nuova modifica del paesaggio potrebbe avere delle conseguenze sulla popolazione. Quest’anno abbiamo avviato una tesi di dottorato sul camoscio, in collaborazione con un professore di Ferrara, esperto di ungulati di montagna, per cercare di capire, a partire dai dati di monitoraggio annuali di cui disponiamo, quali possono essere i fattori climatici o ambientali che possono intervenire sulla dinamica di popolazione. Nell’ambito di questo lavoro, è in corso di svolgimento la misurazione del cortisolo fecale, indicatore di stress, in campioni di feci prelevati in aree diverse: zone in cui vi è presenza di solo camoscio, zone in cui convive col cervo, zone a presenza turistica o di bestiame domestico. Lo scopo è verificare come varia il cortisolo da caso a caso e se è possibile identificare una correlazione tra livello di cortisolo e disturbo. A scopo precauzionale, nel Parco manteniamo l’accesso a numero chiuso nelle aree in cui si è attestata una diminuzione degli esemplari e provvediamo a pagare affitti o indennizzi per mantenere alcune zone, di particolare interesse per la sottospecie, di riserva integrale, perseguendo in tal modo una gestione attenzionata del pascolo.