Tre cime o Drei Zinnen: confine e simbolo delle Dolomiti

Tra Alto Adige e Veneto, queste tre vette da secoli separano e ricompongono lingue, culture e paesaggi, diventando icona universale di equilibrio e bellezza.

Non esiste, in tutto l’arco alpino, una morfologia che possa paragonarsi alla verticalità assoluta delle pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo. Quando si pensa alle Dolomiti, è come pensare alla Torre di Pisa o alla cupola di San Pietro. Forse solamente il Cervino riesce a evocare una simile potenza simbolica nell’intero panorama montano-alpino. Al confine tra Veneto e Alto Adige, tra le guglie di dolomia che si stagliano monumentali, questi tre monoliti di quasi tremila metri di altezza, si sono, nel tempo, trasformati da montagna a icona mondiale dell’intero paesaggio alpino, soprattutto quello dolomitico. La loro massa calcarea, tagliata di netto, emerge dal paesaggio circostante con una forza quasi scultorea. Tre denti di pietra, tre monumenti naturali che si impongono con un rigore architettonico perfetto, come se fossero nati per rappresentare — più che una montagna — un’idea. Quell’idea, è oggi patrimonio collettivo, non solo di chi ama la montagna ma anche di chi ama la semplice perfezione della natura.

 

La scoperta delle Tre Cime

La loro rivelazione fu improvvisa. Fu da ovest, nel 1861, che due viaggiatori inglesi, Josiah Gilbert e George C. Churchill, le osservarono per la prima volta e ne rimasero folgorati; ne fecero un’incisione destinata a diventare celebre nel loro libro The Dolomite Mountains, la pubblicazione che introdusse al mondo il nome stesso “Dolomiti”. Quell’immagine sancì la nascita del mito in cui le Tre Cime di Lavaredo divennero il volto delle Dolomiti, la prima grande rivelazione di queste montagne all’Europa del XIX secolo.

Da quel momento, le Tre Cime non smisero più di essere un simbolo. Sono la sintesi della montagna come forma pura, equilibrio e mistero e come ogni grande icona, hanno saputo superare i confini, soprattutto quelli geografici, per diventare rappresentazione universale e oggi, la loro sagoma, accompagna loghi turistici, copertine, marchi di prodotti dolomitici. Eppure, prima ancora che icona grafica, esse sono icona culturale.

Nelle Tre Cime si condensa l’intera essenza delle Dolomiti, riconosciute dall’UNESCO come Patrimonio Mondiale nel 2009 per il loro valore geologico e paesaggistico, sono patrimonio anche per la loro forza simbolica; una bellezza fragile, che unisce natura e cultura. Sono l’immagine che viene alla mente quando si pensa alle Dolomiti.

 

Le tre cime e i loro “confini”

Nondimeno, le Tre Cime non sono solo un simbolo estetico. Da secoli rappresentano un autentico elemento di confine; un muro di roccia che separa e, al tempo stesso, unisce. Tre guglie che marcano una linea invisibile tra due mondi, due valli, due culture. Un confine che è barriera e ponte insieme, una soglia viva dove si incontrano storie e lingue, miti e prospettive.

Dal pianoro del Rifugio Locatelli–Innerkofler, a 2454 metri, la sensazione è inequivocabile, ci si trova infatti, su un limite naturale dove alle spalle, verso nord, si stendono le Dolomiti di Sesto e le valli dell’Alto Adige, in cui la lingua tedesca e la cultura austro-ungarica hanno modellato paesaggi di ordine e sobrietà, un mondo fatto di silenzi, di masi chiusi e di un rapporto silenzioso e religioso con la montagna. Davanti, in direzione sud, oltre i tre “denti” di pietra, si apre il Veneto, con le sue valli più ampie e il verde profondo del Cadore, dove la severità del Nord si stempera in una luce più morbida e “mediterranea”.

A nord, nel comune di Dobbiaco, le tre guglie sono chiamate Drei Zinnen: il nome, duro e netto, appartiene alla lingua e alla cultura del mondo germanico, evocando l’asprezza e la forza di queste montagne.
A sud, nel comune di Auronzo di Cadore, le stesse vette diventano Le Tre Cime di Lavaredo, un nome italiano, più morbido, che richiama una sensibilità latina e una dolcezza delle montagne spesso legate e miti e leggende.
Due nomi, due lingue, due modi diversi di percepire la stessa realtà naturale; eppure, nella loro identità doppia, le Tre Cime si fanno cerniera viva tra Nord e Sud, tra il rigore mitteleuropeo e la grazia mediterranea divenendo una perfetta metafora dell’arco alpino in cui, nuovamente, la montagna non è intesa come barriera che divide ma come ponte che unisce culture e visioni.

La linea che esse oggi segnano non è solo geografica ma storica. Dopo la Prima guerra mondiale, il crinale delle Tre Cime divenne il limite tra i comuni di Dobbiaco (Bolzano) e Auronzo di Cadore (Belluno) ma le sue origini risalgono al 1752, quando il Trattato di Rovereto tra Maria Teresa d’Austria e il doge Francesco Loredan fissò il confine tra il Sacro Romano Impero e la Repubblica di Venezia. Quella linea passava — e ancora passa — esattamente sulla cresta delle Tre Cime, per poi precipitare a strapiombo dividendo a metà i tre blocchi di roccia.

Da oltre due secoli e mezzo queste montagne sorvegliano un confine che non divide ma racconta una storia che ha modellato le mappe, le lingue e le identità, un archivio di pietra, una memoria verticale che custodisce la storia d’Europa nelle sue vene di roccia dolomitica. Chiamarle un muro è inevitabile ma si tratta di un muro singolare: irregolare, aperto, percorribile. Da lontano sembrano una barriera naturale, eppure chi le circonda ne scopre la porosità — ci si può avvicinare, toccarle, attraversarle da ogni lato, lasciandosi sorprendere da prospettive sempre diverse. In questa loro duplice natura — ostacolo e passaggio, distanza e incontro — risiede la loro forza simbolica. In montagna, ogni limite si trasforma in soglia, ogni confine diventa occasione, seppur faticosa, di attraversamento. Chi oggi compie l’anello classico delle Tre Cime — dal Rifugio Auronzo al Lavaredo, al Locatelli e ritorno — vive, forse senza accorgersene, il passaggio tra due culture in un unico paesaggio. È un cammino che unisce non solo rifugi e vallate ma anche memorie e linguaggi, ricordando che la montagna, nella sua durezza e nella sua bellezza, resta il linguaggio più autentico della vicinanza.

Come tutte le grandi montagne, anche le Tre Cime furono a lungo percepite con diffidenza. Per secoli, le vette erano considerate luoghi ostili, spazi di pericolo e mistero, mostri giganti che sovrastavano le valli sottostanti. Solo con il Romanticismo e con la nuova sensibilità scientifica dell’Ottocento, l’uomo iniziò a guardarle con occhi diversi, riconoscendone la bellezza e il valore paesaggistico.

Da “vette cupe e sgraziate”, come le definivano i cronisti settecenteschi, divennero elemento paesaggistico imprescindibile dello sguardo umano, trasformandosi da minaccia in patrimonio, da limite in orizzonte culturale prima e turistico poi. Forse, avvicinandosi e sollevando lo sguardo, l’uomo capì che la montagna non gli era nemica e che quella durezza era solo il riflesso di una scarsa conoscenza di esse.

Nonostante la loro fama mondiale, le Drei Zinnen conservano un’aura di solitudine quasi mistica. Costringono a tenere il naso all’insù. Stanno lì, ferme, isolate, come tre colonne di un tempio naturale attorno al quale ruotano tutte le altre montagne. Non hanno colori vivaci né forme eccentriche, la loro forza risiede nella purezza delle linee, nel contrasto tra le pareti settentrionali, verticali e fredde e le pendici erbose che si distendono a sud. Sono monumenti di roccia, cattedrali del tempo che non appartengono a nessuno e allo stesso modo sono di tutti.

Con l’iscrizione delle Dolomiti nell’UNESCO, le Tre Cime sono diventate simbolo ufficiale dell’universalità della montagna. Non più soltanto meta di alpinisti, fotografi ed escursionisti ma emblema di un paesaggio che rappresenta l’equilibrio tra bellezza e fragilità, tra forza e vulnerabilità.

La loro immagine è oggi manifesto della tutela ambientale e del valore culturale della montagna. Fisse nel loro silenzio millenario, le Tre Cime ci insegnano che i confini non dividono ma possono unire, che la montagna rappresenta un equilibrio fragile e perfetto e che la bellezza autentica consiste nel rispetto per ciò che non possiamo possedere ma solo condividere.

Le Tre Cime di Lavaredo, con la loro triplice silhouette che svetta tra cielo e roccia, restano ciò che sono sempre state: un simbolo di pietra, un confine che unisce, una cattedrale naturale delle Dolomiti e dell’umanità intera.