Genti di Sila: vivere, restare, resistere

C.A.I. SEZ. CATANZARO
 

Che cos’è la Sila?
Gli orizzonti scuri di boschi e i villaggi apparentemente deserti che si aprono alla vista percorrendone le strade in autunno e in inverno. Valli e foreste che svelano i loro segreti ai camminatori che vi si avventurano. File di cassette colorate che si allineano a settembre nei campi di patate. I ristoranti affollati nei giorni festivi. I laghi, opere dell’uomo che paiono esistere da sempre. Le vie delle località turistiche, che propongono tipicità vere e presunte e souvenir. L’aria fresca e pulita. Forse tutto questo, ma non solo. C’è molto di più: la Sila è la sua gente.

Sono passate alcune settimane da un sabato di giugno, quando decine di persone si sono incontrate tra i muri di pietra del Rifugio della Sezione di Catanzaro del Club Alpino Italiano. E l’incontro aveva un nome che voleva essere programma: “Genti di Sila”.

Chi in Sila ci vive, lavora, produce. Ma non solo. Chi frequenta la Sila, ne apprezza la grandezza, ne ha rispetto, la percorre, cerca la relazione con chi ci vive. Cercando di superare la distanza evocata dai versi di Sila di Franco Costabile:

"...Se poi, quella gente ci vive d'inverno col pane di segala e i lupi,
a te, che importa, te ne stai nel calduccio, in città, raccontando agli amici il verde odoroso dei pini".

Che ci ricordano, oggi più che mai, come sia impegnativo vivere in un ambiente, quello delle terre alte, non del tutto amico, marginalizzato, lontano dai servizi essenziali.

Appena qualche giorno prima mi ero imbattuto nella versione aggiornata a marzo 2025 del Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne (PSNAI). Quelle aree definite come:

“…un’ampia porzione del territorio nazionale, che, sebbene ricca di risorse, ambientali e paesaggistiche, culturali e del saper fare locale, ha subito gradualmente nel tempo un processo di marginalizzazione che si è tradotto in declino demografico, calo dell’occupazione e uso e tutela del suolo non adeguati.
Si tratta di centri di piccole dimensioni, individuati quali aree distanti da centri di offerta dei servizi essenziali dell’istruzione, della salute e della mobilità, assai diversificati al loro interno e con forte potenziale di attrazione…”.

Il Piano Strategico:

“…fornisce le linee guida per implementare interventi mirati che rispondano alle specificità di ciascun territorio e promuovano il benessere delle persone, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, partenariato e governance multilivello, tramite l’armonizzazione delle risorse e delle normative esistenti…”.

Si tratta di un documento lungo, complesso, articolato che in un passaggio cruciale recita:

“…Un numero non trascurabile di Aree interne si trova già con una struttura demografica compromessa (popolazione di piccole dimensioni, in forte declino, con accentuato squilibrio nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni) oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività.
Queste Aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse.
Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita…”.

In altri termini, luoghi da accompagnare dignitosamente nel loro declino, giudicato irreversibile. Luoghi destinati a scomparire. Affetti da una malattia cronica, avanzata, dalla prognosi infausta, descritta con il linguaggio asettico del documento burocratico.

Parte delle persone che affollano il salone del Rifugio in quel sabato di giugno vivono in quei luoghi, lontani dalle scuole, lontani da un medico, in comunità molto piccole, da cui è forte la tentazione di fuggire. In cui il termine restanza, coniato dall’antropologo Vito Teti e inserito a pieno titolo nel Vocabolario Treccani, ha il significato di sfida esistenziale quotidiana.

Il primo a prendere la parola è un casaro, autentico restante:

“…Le cose vanno peggio… Nei borghi non c’è più nessuno…”.

La consapevolezza del forte declino indicato dal Piano strategico, lo spopolamento.

“…cerchiamo di andare avanti e di salvare la Sila, anche se viene maltrattata…”.

La speranza, il legame indissolubile con la propria terra, la tenacia nel continuare a produrre latticini, che solo lì vengono così buoni.

“…Mancano le strade…” gli fa eco un ristoratore,
“…sto cercando di non far partire i miei figli…” dice sommessamente un imprenditore di un piccolo paese in quota.

Qualcuno invoca l’intervento della politica e degli enti locali. C’è chi punta il dito sulle iniziative improduttive di alcuni comuni, che cercano di attirare turisti con iniziative artificiose, giudicate di utilità nulla. E critica il concetto di restanza, assai in voga, nulla più che una visione romantica, che si scontra con l’assenza dei servizi essenziali.

“…C’è la restanza e ci sono i paesi… non è facile restare e fare i conti con una linea ferroviaria interrotta da tempo, con distanze che possono essere colmate solo se si dispone di un’automobile, con scuole lontane e un’assistenza sanitaria limitata…”.

O del tutto assente, sicché è necessario confidare nella propria buona salute.

“…Non sarà il turismo a salvarci…”,
quantomeno non solo esso, se non si comprende che la vera risorsa è il territorio. Che deve essere tutelato:

“…ciò che vuole l’uomo non è ciò che vuole la natura…”,
dice una guida ambientale molto attiva in Sila.

E noi cittadini, che siamo lì di fronte ai “silani”, che cosa possiamo fare? Entrare in relazione con loro, ascoltarli, affiancarli. Con le loro parole, quelle dei dialetti che ricordano migrazioni interne e processi di popolamento e insediamento. Con l’archeologia delle parole, sapientemente evocata da un poeta e scrittore della presila catanzarese.

Gli esponenti del direttivo di un’associazione di recente costituzione, con la missione di valorizzare la Sila, evocano la necessità di indurre meccanismi virtuosi agendo da facilitatori sul territorio. Che ritorna a essere proposto come punto centrale di ogni azione.
E ancora:

“…Fare rete e guardare lontano…”
suggerisce il parroco di Marcedusa.

Un network sul territorio di contadini, casari, allevatori, albergatori, ristoratori, guide, depositari di saperi e del saper fare. Nulla di nuovo, nulla che non si sia già visto in tanti altrove del mondo, ma che stenta a materializzarsi in una terra che ha scarsa dimestichezza con il concetto di capitale sociale.

Due professori universitari, che hanno ascoltato e preso appunti, cercano di dare significato e profondità ai concetti espressi dai silani e da noi cittadini.

“…Prendere a modello il costruire comunità delle regioni alpine… partire dalle persone che fanno… unire genti e agenti, ovvero ricordi, sentimenti, idee…”,
è il punto di vista del sociologo.

“…Necessità di maggiore visibilità, anche attraverso il fare rete… cooperare dal basso e cooperare con le istituzioni…”,
è il suggerimento dell’economista.

Dopo tre ore di interventi emerge un tema di fondo:
la forza è nel territorio, per quanto esso sia impoverito dallo spopolamento, indebolito dalla mancanza di servizi, reso distante da una rete viaria vecchia e trascurata.
La forza è nel mantenere comunità di uomini e donne che ogni giorno si rimboccano le maniche, non vogliono andare via e fanno ciò che noi cittadini non sappiamo fare ma apprezziamo.

La forza è nel dare spazio al racconto di una Calabria allo stesso tempo alta e profonda, che resiste, che non può, non deve essere dignitosamente accompagnata verso l’estinzione. La forza è nell’unione delle forze. Noi cittadini, noi soci del Club Alpino Italiano, che abbiamo voluto “Genti di Sila”, dobbiamo diffondere la conoscenza della montagna.

Non solo dei suoi luoghi, ma della vita e delle azioni di chi vi abita. Vi sono enti e istituzioni a ciò deputati, ma il nostro ruolo dal basso può fare la differenza. Demolire stereotipi, evitare visioni superficiali e perciò inutili.

Conoscere per apprezzare, apprezzare per amare, come dice Teresio Valsesia. Tuttavia mi coglie il dubbio che questa visione possa essere elitaria. Qual è il sentire comune dei tanti frequentatori delle montagne italiane?

Mi soccorre il Rapporto Montagne Italia 2025, appena pubblicato. E un’intervista fatta dagli autori. Da cui emerge la prevalente percezione della montagna come luogo del “fresco”. Come luogo dalla vita differente. E la consapevolezza dei problemi peculiari della montagna: spopolamento, abbandono, difficoltà di collegamento e di accesso ai servizi essenziali, impatto dei cambiamenti climatici. I conti, almeno in parte, tornano.

Seppur è comune cercare sulle montagne comodità e consuetudini della vita cittadina. Cercare le atmosfere dei centri commerciali. Banalizzarla come luogo ludico. L’ho già scritto in passato: la Sila offre l’opportunità di sperimentare la coesistenza virtuosa delle necessità degli uomini con la tutela dei suoi ecosistemi.

Che è poi la filosofia delle aree MAB (Man and Biosphere) Unesco, di cui l’altipiano della Sila fa orgogliosamente parte. Filosofia ancorata solidamente al concetto che le montagne sono luogo di uomini e di donne.

A proposito dei cambiamenti climatici, nel nostro dibattito a più voci sono stati i grandi assenti. Vi ha fatto cenno, indirettamente, il nostro amico guida ambientale. Eppure la crisi climatica non risparmia nessuno. E proprio in montagna i suoi effetti sono più evidenti. E si ripercuotono inevitabilmente a valle, sulla vita di uomini e donne che abitano i grossi centri.

La Sila è in Calabria, la Calabria si trova al centro del Mar Mediterraneo. Ovvero di uno dei principali hot spot della crisi climatica. Lo scostamento delle temperature in Calabria nel corso delle stagioni supera il grado e mezzo che rappresenta l’anomalia planetaria media rispetto ai periodi di riferimento. Fa più caldo in estate e fa meno freddo in inverno, piove di meno, nevica assai meno.

Quanti tra coloro che frequentano estemporaneamente la Sila ne hanno consapevolezza?
La crisi climatica mette a rischio gli ecosistemi. E ciò deve stimolare la nostra attenzione e il nostro rispetto verso le sue genti, che operano in condizioni progressivamente differenti, e più difficili, da quelle che hanno caratterizzato la nostra montagna per secoli.

E di nuovo le sue genti devono cooperare davanti a nuovi contesti che nessuno può contrastare da solo. E i cittadini devono guardare alle montagne con equilibrio, senza cadere negli equivoci dei luoghi comuni.

Tutti a vivere in montagna è il titolo di un articolo comparso su Doppiozero a firma di Giuseppe Mendicino. Che scrive:

“…Attenzione anche alle illusioni, magari quella della montagna luogo di una sapienza del vivere che attende a braccia aperte il cittadino in fuga.
Il turista occasionale gode del silenzio, del verde e dei panorami, di rado si domanda come viva e quali problemi debba risolvere chi abita le terre alte.
Tra monti e valli invece, come in pianura, si possono trovare anche follia, disperazione e male di vivere…”.

E ancora i conti tornano, coerentemente con quanto ci hanno raccontato i Silani in occasione di “Genti di Sila”. E coerentemente con i versi di Franco Costabile.

In realtà, tra i presenti c’è chi ha parlato di “gelosia” verso i turisti, che vengono per qualche ora ad appropriarsi di luoghi che per i Silani hanno un’utilità, anche economica. E un vecchio amico ha chiesto provocatoriamente, e non senza una certa veemenza:

“…Ma che ne sapete della Sila? La conoscete veramente?...”.

Provo a rispondere. Io e altri cittadini ci siamo avvicinati alla montagna silana spinti dalla curiosità e vi abbiamo portato riti nordeuropei e anglosassoni, come il camminare, e riti scandinavi, come lo sci escursionismo. Camminare, scivolare sugli sci sono diventati il mezzo di conoscenza di territori sconosciuti a noi uomini e donne di città.

Per alcuni di noi la conoscenza, sempre più capillare, sempre più raffinata, è diventata affetto. E con il tempo senso di protezione. E abbiamo maturato una convinzione: non c’è conoscenza dei luoghi senza relazione con i loro abitanti. Senza conoscenza dei loro modi di vita e del loro pensiero. Senza consapevolezza ed empatia.

Pertanto quanto scritto nel Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne ci disturba. Quella irreversibilità dei processi di spopolamento e di rinuncia a fornire servizi essenziali che si autoalimenta. La montagna ridotta al più a luogo esotico, dove respirare per qualche ora aria buona e consumare un pasto tipico. La montagna ridotta a luogo di un immaginario banale. E come tale destinata a scomparire nell’indifferenza generale.

E invece, in quel sabato di alcune settimane fa, le genti di Sila ci hanno parlato di una realtà ben viva, del loro ruolo di custodi di un’identità non solo geografica, ma umana e culturale. Ci hanno parlato di vita quotidiana che si misura con l’inverno demografico, con l’abbandono dei luoghi, con la scarsità delle risorse. Ci hanno comunicato il loro legame spirituale con la terra e la speranza di potervi rimanere.

Che si può trovare nelle parole di Domenico Cersosimo e Sabina Licursi, nel loro Lento Pede:

“…Le aree marginalizzate non sono spente.
Per accorgersene però bisogna adottare altri sguardi, accendere i fari sulla vita che c’è nei paesi vuoti, sui bisogni, le attese e le aspirazioni di quanti restano e, più raramente arrivano.
Pochi, ma sufficienti per autorizzare la speranza che i luoghi rarefatti siano abitabili…”.