L'Everest visto da sud © PixabaySi chiama Philipp Santiago II, era filippino, ed è deceduto la notte del 14 maggio al campo 4 della via nepalese per la vetta dell'Everest. È il primo morto ufficiale della stagione 2025 sul Tetto del Mondo, e la notizia ha fatto subito il giro dei media internazionali. Le agenzie rilanciano. I social si commuovono.
Eppure, solo tra le righe dello stesso comunicato, quasi come un’annotazione secondaria, emerge un altro dettaglio. Due Sherpa nepalesi sono morti pochi giorni prima, colpiti da mal di montagna acuto al campo base. Non conosciamo i loro nomi. Non sappiamo chi fossero. Nessuna fotografia. Loro, su quella montagna ci lavoravano.
Ecco il punto: una vita fa notizia e un’altra no, è sempre stato così. Perché la morte di un uomo che ha scelto liberamente di inseguire il sogno dell’Everest scuote le coscienze globali, mentre quella di due uomini che erano lì per permettere a quell’impresa di esistere non merita neppure una riga in grassetto?
Sulle più alte montagne del mondo gli Sherpa non sono comparse. Sono fondamenta. Senza di loro, il turismo d’alta quota sull’Everest semplicemente non esisterebbe. Preparano i campi, portano l’ossigeno, aprono le vie, si prendono cura dei clienti fino allo sfinimento. A volte fino alla morte. E lo fanno non per sport, ma per lavoro. Per necessità. In queste ore, mentre le squadre si affrettano a sfruttare la finestra di bel tempo per raggiungere la vetta, mentre le guide internazionali organizzano "doppiette" Everest-Lhotse come se fosse una maratona di lusso, mentre le tende si svuotano e i selfie dalla cima affollano i social, ancora una volta ci siamo dimenticati di chi rende tutto questo possibile. Non è solo questione di alpinismo. È una questione etica, umana. La vita di un portatore, di un cuoco da campo, di una guida nepalese vale quanto quella di chi “cerca sé stesso” a ottomila metri. E invece continuiamo a comportarci come se valessero meno. Come se la loro morte fosse una conseguenza inevitabile, collaterale, quasi prevista e dunque accettabile. No. Non lo è.